domenica 29 gennaio 2012

ZINGO n° 3 "Grosso guaio a Giudatown" (6a parte)

(...segue...)

     Il giorno seguente impiegai tutto il pomeriggio ad accertarmi che nessuno fosse sui miei passi. Era fondamentale evitare di essere pedinato. Così girovagai per tutta Giudatown con l’unico scopo di far perdere le mie tracce a chiunque si fosse messo a seguirle. Camminai a piedi, usai mezzi pubblici e mi spostai infine con la Scaberwilly (dopo averla recuperata ben lontano da casa) fino a parcheggiarla a un paio di chilometri dal molo.
     Pur essendo il ritrovo fissato per l’ora di cena, arrivai sul luogo convenuto con due ore di anticipo: sì, volevo studiare bene il posto e conoscerne perfettamente anfratti, nascondigli e vie di fuga. Già all’imbrunire il freddo penetrava nelle ossa, eppure la grande tensione mi faceva sudare come un antilope nella stagione degli amori. Dopo perlustrazioni accurate e vari giri di ronda trovai finalmente un angolino ideale per rimpiattarmi: la cabina di un vecchio peschereccio in disuso, ormai ritiratosi in pensione e ormeggiato nella penombra; da lì potevo tenere d’occhio l’intero scalandrone.
     Il Molo di Frombole, un luogo tutt’altro che romantico anche in pieno giorno, diventava ancora più lugubre nel buio di quella fredda notte d’autunno; il mare si rompeva con fracasso regolare lungo i frangiflutti di cemento, il vento ululava con quanto fiato aveva in gola e l’acquazzone non risparmiava tuoni e saette. Era forse quello il giorno del castigo?
     Più le lancette si avvicinavano a marcare le 20, più cresceva il pentimento per essermi ficcato in quella situazione. D’accordo, a quel punto dell’investigazione avevo bisogno di mettere a confronto diretto tutti i protagonisti della vicenda, ma partecipare a un tal conclave di delinquenti poteva costarmi davvero caro (e pensare che nessuno mi pagava per quella maledetta indagine! Ah, come vivrei meglio in generale se non avessi dentro di me questo forte senso del giusto…). Il rammarico si trasformò in panico quando alle 20 spaccate vidi i fari di una macchina parcheggiare non lontano dalla darsena. Dopo poco due sagome scure si avvicinarono furtive a piedi fino ad arrivare allo scalandrone. Dal nascondiglio ove ero rintanato riconobbi piuttosto facilmente una delle due figure: Ganascia. L’altro doveva essere Larry Bronco detto Tartaglia. Al riparo dei loro ombrelli scrutavano attorno con diffidenza. Lo sciabordio del mare contro la fiancata del peschereccio di cui avevo preso possesso m’impedì di udire le parole fitte che si scambiarono. Poi a un tratto vi fu un rumore da una delle file di silos, forse il cigolio di un portellone. Ganascia urlò in quella direzione: “Chi va là? Kazz, sei tu?”.
     SGRANG! Per tutta risposta dai silos partì un colpo di bombarda che quasi polverizzò l’ombrello di Tartaglia. Costui gridò: “Per la pe-pe-pe-peppa!”. I due del clan degli Abbatecola si ritrassero fulminei fino a nascondersi dietro le rotaie di una mancina scortecciata. Appena ebbe ripreso fiato, Ganascia urlò: “Accidenti a te, Kazz della malora! Che razza di trappole ci prepari?”.
     Dovevo pur dire qualcosa: “Ohilà, ragazzi! Tutto bene?”.
     Ganascia urlava tutta la sua rabbia: “Imbecille che non sei altro, non ci hai riconosciuto? Ci è mancato poco che ci portassi via la testa di netto!”.
     “Ci deve essere un equivoco”, seguitai a vociare senza mostrarmi. “Io non ho sparato nessun colpo”.
     “Non pensare di farla franca, Kazz! Adess…”.
     SGRANG! La bombarda assassina colpì il telaio della grossa gru dietro cui stavano nascosti, provocando un fragore metallico e zittendo il Ganascia.
     Fu allora che dalla parte dei magazzini, ovvero dall’ala sud del molo si udirono tre fitti spari di fucile: BAM! BAM! BAM! Era chiaramente un Navinger. Dunque persino il Picciotto e il Piccione erano adesso della partita, anch’essi nascosti alla vista. Capii a quel punto chi era a maneggiare la bombarda dal lato nord, quello dei silos: altri non poteva essere che il segugio Rocco Roller, infaticabile pedinatore. Era la resa dei conti e se qualcuno quei conti pensava di farli senza l’oste-Zingo si sbagliava di grosso.
     RA-TA-TA-TA-TA!!! Ganascia e Tartaglia mitragliarono alla rinfusa verso i magazzini. Si erano forse resi conto che non potevo aver organizzato tutto da solo; avranno pensato che qualcuno li aveva seguiti fin lì.
     La ganga di Vanv parlò per bocca di Otto il Picciotto: “Kazz! Rispetta i patti!”, lo sentii sbraitare da lontano.
     “Ecco sì, rispettali!”, berciò Ganascia rafforzando il concetto.
     SGRANG! Rocco Roller sembrava non amare il dialogo e lasciava che a trattare fosse la sua bombarda.
     Forte del fatto che nessuno di quei criminali avesse ancora capito la posizione del mio nascondiglio, presi coraggio ed urlai: “Vedo che stasera c’è il pubblico delle grandi occasioni. Bene, signori. Chi vuole le rubelliti se le dovrà sudare”. Parevo proprio il Johnny Flint di ‘L’uomo dalla mano mozza’, sicuro e ardimentoso.
     “Maledetto! Peter Fauna pagherà caro questo scherzetto!”, gridarono in coro i due vanveri.
     “Maledetto! La mafia di Burgos pagherà caro questo scherzetto!”, fece eco Ganascia a nome del clan degli Abbatecola. Le minacce erano grosso modo le medesime, ma ognuno aveva il suo destinatario cui inviarle. Avevo scatenato una guerra senza eguali tra le cosche! E Rocco Roller, chiederete voi? Lui parlo così: SGRANG!
     Dopo quell’ennesimo colpo di bombarda si scatenò il putiferio.
      RA-TA-TA-TA-TA!!! RA-TA-TA-TA-TA!!!
     BAM!!! BAM!!! BAM!!!
     SGRANG!!!
     RA-TA-TA-TA-TA!!! RA-TA-TA-TA-TA!!!
     BAM!!! BAM!!! BAM!!!
     SGRANG!!!
     A quel punto volli partecipare anch’io a quella sagra della pistolettata. Spenzolai un braccio dalla cabina del peschereccio, puntai verso l’alto il mio revolver e al grido di “Ma andate tutti a fa’ ‘n culo!” scaricai in aria un tris di colpi: BANG! BANG! BANG! Così, tanto per non uscire dal coro, ecco. Mi piaceva l’idea di prendere parte a quella gran caciara.
     Fu proprio allora che dal mare si accese un faro accecante che illuminò il molo quasi a giorno.
     “Chi v’è?”, ebbi appena il tempo di chiedermi.
     Un battello era entrato nel molo a motore spento senza che si potesse rivelarne la presenza. Era forse la guardia costiera nel suo servizio di controllo notturno?
     PUM! PUM! PUM!
     No, la guardia costiera non spara cannonate nei porti.
     La situazione stava degenerando. Chiunque fossero quei pazzi sul battello, era rischioso rimanere lì anche un minuto di più. Nel fuoco di fila che seguì tra quelli sull’imbarcazione e i malavitosi nascosti a terra, tra imprecazioni e urla di dolore, capitò che per fortuna un proiettile infranse la lampada del riflettore del battello e il molo ripiombò nella sua naturale oscurità.
     Non persi tempo e scesi subito dal peschereccio sgusciando fuori dal mio nascondiglio. ‘Sgusciando’ è proprio la parola giusta perché i miei mocassini non erano le scarpe più indicate per fare l’equilibrista su una passerella bagnata: picchiai una gran culata sul cemento, evitando per poco l’acqua, travolgendo un bidone e producendo un gran rumore.
     “Ec-Ec-Ec-Ec-colo là! E’ Fa-Fa-Fa-Fa-Fausto Kazz!”. Fortuna che a dare l’allarme fu Tartaglia; quelle raffiche di ‘Ec’ e ‘Fa’ mi concessero qualche secondo di vantaggio in più e mi permisero di rialzarmi e scappare via lungo la ripa sdrucciolevole. Scelsi la direzione sud, la stessa dove avevo lasciato la Scaberwilly (sebbene molto lontana dalla strada che conduceva al molo). Dietro di me udivo distintamente grida e deflagrazioni: mentre zigzagavo tra le pozzanghere i proiettili mi fischiarono vicino. Pensai che la mia ora fosse giunta. I peggiori ceffi di Giudatown mi stavano alle calcagna come lupi alsaziani insaziabili e sapevo che non si sarebbero lasciati sfuggire tanto facilmente una preda così sconsiderata da averli voluti affrontare a viso aperto. Ad un tratto udii la voce del Picciotto: “Ecco lo vedo: quella sagoma davanti a noi! Lo tengo sotto tiro, quel Fausto Kazz della miseria!”. Il Piccione gridò concitato: “Sparagli, dài! Mira alla testa di Kazz!”.
     BAM! BAM!
     “Cilecca, faccia di Kul!”, urlai a mia volta.
     I miei mocassini invero mi furono a quel punto di grande aiuto: correndo sfrenatamente lungo il bordo della banchina, un bordo reso assai scivoloso dalla pioggia mista alla salsedine, quelle care calzature di cuoio slittarono via in aria facendomi perdere l’equilibrio. Finii in mare con un tonfo alquanto spettacolare e ben ricordo che detti una disgustosa gozzata di acqua salata, nafta e kerosene. Mi venne in mente uno dei precetti fondamentali che, quand’ero ragazzo, soleva impartirmi lo zio Chester: “Ricordati, Dino: bere il kerosene alla salute non fa per niente bene”. Eh, lo zio Chester! Mi ha insegnato tante di quelle massime… Comunque il volo in mare fece sì che i miei inseguitori, complice il buio quasi totale, perdessero le mie tracce di colpo seguitando la loro rincorsa lungo il molo e perdendosi nella foschia di quella drammatica notte tra berci, bestemmie, spari e smitragliate varie.
     Quando a fatica sortii dall’acqua potei vedere entrare nel porticciolo di Frombole una navetta con una luce lampeggiante sulla cima dell’albero: una voce al megafono intimava a quelli del battello col cannoncino di uscire sul ponte a mani alzate. Quella sì che era la vera guardia costiera!
     Siccome però non era mia intenzione essere coinvolto in beghe che avrebbero soltanto rallentato la mia indagine, mi defilai lesto come una torpedine e, pur zuppo d’acqua, m’incamminai di nuovo nella direzione ove avevo parcheggiato la Scaberwilly. Gli spari dei mafiosi erano ormai un’eco lontana ma occorreva comunque la massima prudenza.
     Nel tragitto che percorsi a piedi, mentre il freddo mi faceva battere i denti, rimuginai su quanto accaduto. Sul luogo dell’appuntamento si erano presentate tutte le forze in campo: Ganascia e Tartaglia, il Picciotto e il Piccione e financo Rocco Roller. Tutti con un unico, medesimo scopo: impadronirsi delle fantomatiche rubelliti che, chi per un verso chi per un altro, tutti pensavano fossero nelle mie mani. Ma, ragionavo io molto appropriatamente, se quei gangster si erano adunati al Molo di Frombole pronti a scannarsi l’un l’altro v’era da giurare sul fatto che nessuno di loro stesse bluffando o stesse facendo il doppiogioco. Dannazione! Quell’indagine era un vero rompicapo e mi procurava un bel grattacapo. Oltretutto da lì in poi li avrei avuti tutti contro, non avrei più potuto contare su alleanze di fortuna. Era chiaro che mi ero voluto far beffe di loro.
     No, dissi tra me sotto il diluvio, c’è qualcosa che sto trascurando. Dovevo ripartire dall’inizio, ovvero da quell’angusto cortiletto dietro al negozio di grancasse ove era stato nascosto il cadavere di Pegus Baita, uno dei più grandi fachiri dell’era moderna. Da lì qualcuno (qualcuno che non fosse nessuno dei malavitosi presenti al Molo di Frombole) aveva pur dovuto prelevare la preziosa salma del povero Pegus. C’era in effetti una lacuna nella mia indagine: avevo mancato di interrogare Art Gropp, il noleggiatore di grancasse. Egli era infatti in negozio al momento della sparizione del cadavere, prima che Tegolo ‘il babbeo’ gli desse il cambio verso l’ora di chiusura: la sua testimonianza avrebbe forse potuto chiarirmi qualche punto oscuro; magari, chissà, il Gropp si poteva all’improvviso ricordare il nome, o magari anche soltanto le fattezze, di un cliente che si era mosso in maniera furtiva e sospettosa all’interno della sua bottega la sera dell’omicidio. Sì, una visita ad arte ad Art Gropp sarebbe stata la mia prossima mossa.
     Detti un’occhiata all’orologio: le 21 erano passate da poco. Considerando che ero ormai vicino al posto dove avevo lasciato la macchina, forse avrei fatto in tempo a recarmi dal Gropp quella sera stessa. Certo, fradicio a quella maniera, non ero molto presentabile ma… a quel punto le formalità erano da tempo andate a farsi fottere.
     Arrivai alla Scaberwilly nel giro di un quarto d’ora e razzolai nel portaoggetti sotto il cruscotto dove tenevo un elenco telefonico e uno stradario della città. Dunque: Art Gropp abitava al numero 55 di Via Kalimba de Luna, nella zona collinare dell’Eastern Circus, quartiere ameno di cui non si potrebbe fare a meno. Pigiando sull’acceleratore come so fare quando mi ci metto d’impegno, vi sarei potuto giungere in orario ancora decente per suonare al campanello senza ricevere in risposta improperi o secchiate d’acqua ghiaccia.
    
     La dimora di Gropp era un edificio unifamiliare piuttosto ben tenuto. Parcheggiai la Scaberwilly davanti alla casa, scesi e arrivai alla porta d’ingresso; stavo per suonare il campanello quando sentii chiaramente una voce d’uomo (il Gropp, presumibilmente) provenire da dentro e parlare fitto fitto vicino alla finestra semiaperta, quasi rivolto verso l’esterno, in modo un po’ clandestino come per non farsi sentire da qualcun altro della casa; la voce diceva: “D’accordo, Les. Farò come dici”.
     Pausa.
     “Sì, capisco”.
     Pausa. Capii che l’uomo era al telefono.
     “No, aspetta, Les. Non suonare alla porta, perché in casa c’è quella megera di mia moglie Nilla. Vieni direttamente sul retro. Ti aspetto in giardino, nella baracca dove tengo gli attrezzi”.
     Pausa.
     “Ok, Les, ci vediamo tra cinque minuti”.
     Vi garantisco che la sorpresa di quel rapido colloquio mi fece spalancare occhi e bocca in un’espressione di rara maraviglia. Poche battute che davano finalmente un senso tutto nuovo alla mia indagine: il Gropp e Les Ciattanuga in combutta contro tutti e tutto! Sì, certo, quel Les al telefono avrebbe potuto anche essere un omonimo, ma se non sapessi fiutare il caratteristico odore della puzza di bruciato non farei questo mestiere. Non capivo bene il legame che poteva intercorrere tra i due, ma parecchi nodi a quel punto erano vicini allo sciogliersi. Tuttavia bisognava agire con la consueta pervicacia. Mi rimpiattai veloce dietro la mia Scaberwilly e mi misi in attesa. Di nuovo la voce risuonò dall’interno della casa, stavolta chiara e forte: “Nilla, esco in giardino; vado a sistemare le begonie nella capanna”. Detto fatto. Art Gropp, un omuncolo grasso e spelacchiato, uscì dalla porta di casa, la chiuse dietro di sé e prese poi a percorrere il vialetto di cemento che circondando l’abitazione portava nel giardino sul retro. Seguii la tozza figura del Gropp con passi felpati e silenziosi. Parevo un ozelot. V’era un gran buio, ma la sua torcia elettrica aiutava pure me a intravedere piuttosto bene il camminamento in cemento. L’obeso giunse alla baracca del giardino, entrò, accese la luce e chiuse la porticina. Mi sistemai nell’ombra in posizione strategica; quel capanno non aveva finestre ma le sue esili pareti di legno mi avrebbero permesso di ascoltare ogni parola. Gropp canticchiava felice.
     Dopo pochi minuti una macchina arrivò sulla strada all’altezza di casa Gropp con la classica inchiodata da film. Les Ciattanuga doveva essere proprio un bullo. Ma poi: SKATAPAMM!!!! Altro che bullo, Les Ciattanuga doveva essere proprio grullo. Forse non aveva calibrato bene la frenata e con tutta probabilità era andato a schiantarsi contro qualcosa lungo la via. Comunque eccotelo arrivare un minuto più tardi, avvicinarsi al capanno ed introdurvisi dopo un leggero triplo colpetto del pugno contro la porta.
     “Les! Che cos’era quel frastuono?”
     “Niente, Art. Ho picchiato con la macchina. Solo un graffio. Veniamo a noi: bisogna che tu nasconda qui in casa le rubelliti. Per me è diventato troppo rischioso”.
     “Qualcosa è andato storto?”, chiese ansioso il Gropp.
     “No, niente. Però c’è tensione tra i ragazzi del clan. Gli Abbatecola non tollerano il fatto che qualcuno gli abbia soffiato di sotto il naso 700 milioni di dindos… Quel cretino di Ganascia oltretutto giura di avermi telefonato appena dopo aver fatto secco il fachiro; dice di avermi ordinato di recuperare il cadavere nel tuo negozio e di portarlo subito dopo dal dottor Latimer”.
     “E tu l’hai fatto, del resto”.
     “Già, ma di testa mia, senza i suggerimenti di quell’imbecille. Io gli ho inventato che stavo fuori città quella sera ma Ganascia dice che al telefono gli ho pure risposto. Non so a che gioco stia giocando. Non vorrei che sospettasse qualcosa. Magari mi sta provocando per vedere se faccio qualche mossa sbagliata. Forse mi vuole tenere sulla graticola, il bastardo. Insomma, può darsi che il mio sia uno scrupolo eccessivo ma è meglio non correre rischi. Ecco, prendi, ti lascio in deposito le rubelliti, Art”.
     “Uuuh!”, fece estasiato l’ingordo Gropp. “Fammele vedere… Uuuh! Guarda, Les, guarda come luccicano… Ma quante sono! Uuuh! Lo sai cosa ci faccio con la mia parte? Pianto qui quella ‘cerbera’ di mia moglie Nilla, lascio il negozio e scappo via. Sì, Les, vado al mare. Mi comprerò una villetta dalle parti di Gruccia Bay, una di quelle con l’affaccio direttamente sulla spiaggia, sai? E li vivrò felice e contento per il resto dei miei giorni”.
     “Bravo, Art, ben detto”, fece Ciattanuga distrattamente.
     “Mi ci vedi, eh Les? Mi ci vedi sulla Playa de los Guardones a sorseggiare frappé su una comoda amaca o mentre massaggio le natiche ad un paio di procaci mignottone. Uuuh, già m’immagino la scena…”.
     “Sì, bene”, lo interruppe Ciattanuga con ben altri pensieri in testa. “Adesso ricapitoliamo. Ganascia e Tartaglia hanno il fiato sul collo di tutto il clan e questo ci permette una certa tranquillità nelle operazioni. I delitti di Baita e Latimer che gli ho fatto attribuire stanno creando loro un sacco di problemi. Tuttavia, per precauzione, lasciamo passare ancora qualche giorno; giusto il tempo di capire se quei due hanno annusato qualcosa attorno al sottoscritto. Tu intanto metti le rubelliti al sicuro, mi raccomando. Salvo emergenze, non mi chiamare. Mi farò vivo io”.
     Un paio di altre trascurabili indicazioni, un rapido saluto al socio e infine Les Ciattanuga, mefistofelico doppiogiochista, se ne andò dalla baracca lasciando la porta semiaperta. Dopo qualche istante sentii sgommare via la sua vettura. Il Gropp se ne stava ancora dentro quando una petulante voce di donna lo apostrofò da una delle finestre di casa: “Art! Idiota! Vieni a letto! E’ tardi”.
     “Arrivo subito, Nilla. Cinque minuti e sono da te”, urlò di rimando il Gropp alla moglie. Poi bofonchiò a denti stretti: “Brutta megera che non sei altro! Sfogati ora perché, tempo una settimana al massimo, io me ne vado a Gruccia Bay e col cavolo che mi rivedi!”.
     All’interno della sua baracca lo sentivo maneggiare le rubelliti e decantarne le lodi: “Ma guardatele! Brillano come stelle! Sono la luce dei miei occhi”. Il grassone principiò perfino a cantare a bassa voce un motivetto di fantasia e a inventarsi parole al limite del delirio: “Trallallero trallallà, le rubelliti eccole quaaa/ Ora me ne vado in fuga, col mio amico Ciattanugaaa/ Gruccia Bay è là che aspetta; mi ci faccio una casettaaa/ La rubellite è qui che brilla; vaffanculo a mi’ moglie Nillaaa/ Alla Playa de los Guardones, io ci porto le mignottoneees”.
     Decisi che era il momento di entrare in azione. Sortii dal nascondiglio e m’infilai nella baracca senza produrre il minimo rumore. Art Gropp era di spalle e seguitava a snocciolare stornelli in rima.
     Con un maligno tono di voce, simile a quello del vigile che pesca l’automobilista in sosta vietata, dissi all’improvviso: “Buonasera, Gropp”.
     Il noleggiatore di grancasse trasalì a tal punto che lì per lì pensai lo potesse stroncare un infarto. In una frazione di secondo coprì con un panno le rubelliti con cui stava gingillandosi e si voltò di scatto con il terrore negli occhi: “Chi siete? Che ci fate nella mia baracca?”.
     “Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e mi sa tanto che Lei dovrà rinunciare al quieto vivere di Gruccia Bay e ai suoi sogni lussuriosi sulla Playa de los Guardones”.
     “Fuori di qui! Chi vi autorizza a ficcare il naso laddove non dovreste?”. Il pingue Gropp non aveva in testa più di 25/30 capelli, invero molto lunghi, che faceva passare più volte in cima alla testa glabra con un riportino disgustosamente unto. Le gote paonazze tradivano la sua alterazione. La fronte imperlata di sudore tradiva la sua allerta. Il suo alito pesante tradiva alcuni ingredienti della cena: fichi e salame, o comunque affettati vari in gran copia.
     “Mi consegni immantinente quelle lucenti rubelliti”, gli dissi facendo gli occhi del basilisco. “Se Lei collabora, vedrò di evitarle rogne con la polizia”.
     “Le rubelliti sono mie; le difenderò con le unghie!”. Avido e impavido, il nostro Gropp.
     Non feci discorsi: con un ceffone a mano aperta gli sbalestrai il riporto. Il Gropp strillò acutamente dopodiché, pieno d’ira, mi offese senza mezzi termini la mamma.
     Decisi che con quel tipo avrei dovuto proseguire nella linea dura e mi predisposi ad un combattimento corpo a corpo: “In guardia, panzone!”. Quello, rallentato nei movimenti dalla spessa coltre di grasso, non ebbe neppure il tempo di parare il mio primo colpo. E dove lo colpii il Gropp secondo voi? Ma certo, proprio lì dove suggeriva il suo stesso nome. Infatti nel rifilargli quella percossa commentai ghignante: “Gropp! Prendi questa sul groppone!”.
     “Ma tu sei un vero judoka, porca l’oca!”, ammise con un gemito strozzato il noleggiatore di grancasse vedendosi ormai ad un passo dalla resa.
     Quel riconoscimento mi ringalluzzì alquanto: fulmineo quanto un falco smeriglio in picchiata, picchiai (appunto) il Gropp come un ladrone della sua risma meritava. In tutto sette sberle ben assestate, un paio di colpi alla schiena e una generale scrollatona finale: “Ora vuota il sacco, vile ghiottone di salumi. Come hai fatto ad impossessarti di queste gemme preziose?”.
     Sudato fradicio, il poveraccio scoppiò in lacrime: “Io… io… io non volevo… E’ stata tutta colpa di Les Ciattanuga. Io sono un povero negoziante onesto… Sigh! Sigh! Sigh!”.
     “La sua è un’autodifesa straziante. Ho il gropp in gola”. Mentii. In realtà anziché in gola il Gropp mi rimaneva un po’ più giù. Sullo stomaco. Seguitai con le intimidazioni: “Se non mi racconti tutto per filo e per segno, ti scotenno!”. Forse esagerai un po’ ma ormai ero completamente calato nella parte.
     Art Gropp principiò tra i singhiozzi il suo resoconto i cui punti fondamentali cercherò ora di riassumervi. Il noleggiatore di grancasse e Les Ciattanuga erano conoscenti di vecchia data, addirittura dai tempi del catechismo; per quanto le loro strade professionali fossero ben distanti, il rapporto d’amicizia li teneva tuttora piuttosto stretti. I fatti: qualche giorno fa Ciattanuga viene a sapere da due suoi ‘colleghi’, Ganascia e Tartaglia, che il fachiro Baita – residente proprio sopra la bottega del suo amico – custodisce in corpo per conto degli Abbatecola un bel paio di chili di rubelliti; odorato l’affare a danno del suo clan, si accorda con l’amico Art perché tenga d’occhio il Baita nella speranza di cogliere l’attimo propizio per fargli la festa; ma, per un caso del tutto fortunato, il cadavere del fachiro... ‘piove dal cielo’ la sera di martedì; un rumore sordo fa accorrere il Gropp nel cortiletto della sua bottega e chi ti trova infatti il grassone se non il Baita freddato da mani ignote? Gropp non indugia: avverte al telefono Ciattanuga il quale è prontissimo a far scattare il piano e a dare ordini dettagliati; Art infila dunque il corpo del fachiro all’interno di una grancassa Zurg e poi finge di doverla urgentemente consegnare di persona, tanto che chiede al proprio garzone di bottega, quel rintronato di Tegolo, di fare la chiusura per la sera. Carica tutto sul suo furgoncino Frana, passa a prendere Les Ciattanuga ed insieme si recano poi dal dottor Latimer in Viale Barracuda; il chirurgo, peraltro già avvertito da Larry Bronco detto ‘Tartaglia’, si mette tranquillo al lavoro ed estrae dallo stomaco del fachiro le preziose rubelliti; poscia Ciattanuga, affinché il dottore non abbia a parlare, gli pianta un bisturi nella collottola e cerca di mettere in difficoltà Ganascia lasciando un messaggio cifrato che, scritto alla maniera dei malavitosi, sembra indicare lui come responsabile dell’omicidio; più tardi farà rinvenire il cadavere sventrato di Pegus Baita presso l’imbarcadero con un altro messaggio in codice che getti ombra sull’altro scagnozzo del clan, il Tartaglia.
     “Bene, bene, bene… Adesso le rubelliti mi seguiranno alla centrale di polizia; vuole gentilmente passarmi il fagotto, Gropp?”, dissi non appena egli ebbe finito di enunciare i fatti.
     Il noleggiatore sembrava alquanto indeciso, forse valutava ancora una qualche possibilità di salvezza e continuava a stringere tra le tozze mani il sacchetto con le rubelliti. I suoi singulti di pianto erano invero penosi. Io però non avevo tempo da perdere: presi al volo il vaso di una begonia lì vicino, lo sollevai rapido in aria e lo lasciai ricadere pesantemente sul capoccione del Gropp: ecco, adesso mi sembrava davvero commosso; intendo riferirmi alla commozione cerebrale che gli avevo procurato. Caduto a terra come un sacco di concio, il Gropp dormiva ora sonni tranquilli e dava a me la possibilità di entrare finalmente in possesso di quelle dannate rubelliti; ad ogni modo, per evitare che una volta ridestato potesse avvertire subito quel lestofante del Ciattanuga, lo legai stretto con una fune che trovai lì nel capanno e gli infilai in bocca un grosso bulbo di begonia.
     Abbandonai il giardino del grassone e tornai su Via Kalimba de Luna; quando giunsi in strada, alla luce dei lampioni, vidi sull’asfalto bagnata la strisciata delle gomme della macchina di Ciattanuga: una frenata di parecchi metri… Ma, Santa Madonna! Quelle lunghe striature in realtà portavano diritte verso la mia Scaberwilly, parcheggiata con gusto e precisione lungo il marciapiede… Corsi presso la mia povera vettura e, quando vidi orrendamente rincalcata tutta la fiancata di manca, poco ci mancò che un mancamento mi facesse perdere i sensi. Dannato Ciattanuga! Ecco contro che cosa aveva urtato poco prima! Una ragione in più per assicurarlo alla giustizia, quell’imbroglione! Piansi a dirotto sul cofano della Scaberwilly per circa quaranta minuti (e pensare che nessuno mi pagava per quella maledetta indagine! Ah, come vivrei meglio in generale se non avessi dentro di me questo forte senso del giusto…). Affranto e sconsolato, decisi che era pur ora di tornare a casa.

(...continua...)


venerdì 27 gennaio 2012

ZINGO n° 3 "Grosso guaio a Giudatown" (5a parte)

(...segue...)

     Il mattino seguente finalmente non pioveva anche se il cielo rimaneva cupamente grigio.
     Al chiosco dei giornali di Via Burdisso la locandina del Gazzettino di Giudatown diceva a caratteri cubitali: “Trovato il cadavere di un fachiro”. Poi, sotto, più piccolo: “Chi ha ucciso Pegus Baita? La polizia brancola nel buio”. Me ne assicurai una copia e divorai l’articolo in un baleno. Il Gazzettino non lesinava particolari: il corpo di Pegus Baita era stato ritrovato presso l’imbarcadero della baia di Blue Dendalon da un pescatore di sarde; il cadavere era appeso ad uno dei pali d’ormeggio. Ometterei volentieri il dettaglio successivo se solo non fosse stato decisivo per lo sviluppo dell’indagine (me ne scuso con i molti bambini che leggono le mie avventure): bene, Pegus Baita era stato ritrovato completamente sbudellato. Ecco, l’ho detto. Il caso era stato affidato all’Ispettore Ottanio (ottimo: questo mi forniva un bel vantaggio sui piedipiatti giacché Ottanio era sì meticolosissimo, ma era anche una certificata ‘capa tosta’). La scientifica stava lavorando alacremente ma per adesso poteva solamente garantire che il Baita era morto per un ravvicinato colpo d’arma da fuoco alla nuca, che l’omicidio del fachiro non era avvenuto sul luogo del ritrovamento del cadavere, che il decesso lo si doveva far risalire a molte ore prima e infine che lo sventramento della salma era stato eseguito da mani espertissime, condotto con precisione chirurgica. Ultimo tassello: nella tasca dei pantaloni del Baita erano stati trovati un medicinale sigillato (una confezione di CATARROLUX, serve per curare infezioni delle vie respiratorie) e un biglietto con un altro messaggio scritto a pennarello: “PEGUS BAITA HA AVUTO UN PO’ DI BRONCHITE”. A chiusura del suo servizio il giornalista non risparmiava la solita, maliziosa sferzata agli inquirenti: “Comunque, la polizia brancola nel buio”. Mi sembrava che l’autore dell’articolo soddisfacesse molte curiosità e che affrontasse bene l’argomento; sì, lo sviscerava proprio ben… uh! Pardon! L’anima di Pegus Baita mi perdoni la gaffe…
     Bene: se la polizia brancolava nel buio, lo Zingo cominciava a vederci piuttosto chiaramente. Dunque: gli Abbatecola si servono delle capacità del fachiro Baita per nascondere una partita di rubelliti di dubbia provenienza. Poi qualcosa va storto quando il Baita prende accordi segreti con i rivali della ganga di Vanv e così il clan decide di farlo fuori. Per recuperare la refurtiva si affida poi all’esperienza del dottor Latimer, chirurgo di triste fama. Il Latimer seziona lo stomaco del fachiro (perdonate i particolari ma sono necessari) e rientra in possesso delle rubelliti.
     L’ispettore Ottanio stava magari ancora dietro alle impronte digitali sulla confezione di CATARROLUX trovata nella tasca del compianto Baita mentre io in tasca avevo già mezza soluzione del caso.
     Quelle riflessioni mi accompagnarono fino a Mambo Square e mi portarono di nuovo davanti al Fox Trot Pub. Prima di riprendere possesso della Scaberwilly mi dissi che sarebbe stato opportuno rifocillarsi con una degna colazione. Entrai nel pub e mi sedetti allo stesso tavolo vicino alla vetrata dove ero stato la sera prima. Mi feci servire un pezzo di torta ai pinoli e una tazza di caffè fumante, quindi mi predisposi alla risoluzione dell’enigma dei messaggi rinvenuti a fianco dei cadaveri. Che cosa potevano significare? Erano forse battute umoristiche? Difficile crederlo, giacché la mala non usa l’ironia; non allude, non ammicca, non gioca coi doppi sensi… sì, ecco, semmai alla doppiezza la mala preferisce la doppietta.
     IL DOTTOR LATIMER SI E’ SGANASCIATO DALLE RISATE” e “PEGUS BAITA HA AVUTO UN PO’ DI BRONCHITE”: li lessi e li rilessi, li scomposi, li intrecciai e li capovolsi, ma solo dopo un’ora e venticinque minuti di fitti anagrammi arrivò una di quelle intuizioni che fanno di me il più meglio investigatore privato di tutta Giudatown o, se preferite, una di quelle intuizioni che da sempre si divertono a negarsi quando (ad esempio) uno come l’ispettore Ottanio le va cercando. Insomma, all’improvviso capii. Le parole-chiave contenute nei messaggi erano due: “SGANASCIATO” e “BRONCHITE”. Ma certo! Come si chiamavano infatti i due sgherri del clan degli Abbatecola che Eva Margutte aveva ultimamente visto spesso assieme a Pegus Baita? GANASCIA e Larry BRONCO detto ‘Tartaglia’. I due messaggi erano dunque la firma degli assassini. Un po’ come fanno i cani quando, pisciando, intendono marcare il proprio territorio, così anche certi malavitosi usano contrassegnare i loro misfatti e le loro efferatezze. Come accade anche a me, del resto: ogniqualvolta risolvo un caso mi piace gridarlo ai quattro venti. Insomma, bisogna capirli questi professionisti del crimine.
     Il cameriere che mi aveva servito la colazione giunse d’un tratto a ridestarmi dallo stato di trance in cui ero caduto, tanto ero immerso nei risvolti dell’indagine: “Signore, mi scusi. La desiderano al telefono”.
     “Desiderano me? Ci deve essere un errore”. Chi diavolo poteva cercarmi al Fox Trot Pub?
     “Non credo. Mi è stato espressamente chiesto di parlare col… signore con baffi, occhiali e spolverino, seduto al tavolo vicino alla vetrata. A dire il vero non hanno proprio detto ‘signore’, ecco…”.
     “Ah sì? E come mi avrebbero chiamato?”.
     “Be’… non so se…”, faceva il cameriere imbarazzato.
     “Su, su, coraggio”.
     “Hanno detto: il ‘citrullo’ con baffi, occhiali e spolverino, ecco”.
     Detti un’occhiata al di là del vetro: dall’altra parte di Mambo Square c’era una fila di telefoni pubblici. Tutti occupati: era senz’altro da lì che qualcuno mi teneva d’occhio. Bene. Mi feci condurre all’apparecchio del locale, deciso a farmi rispettare. Presi la cornetta e esordii con asprezza: “Pronto?”. Sì, non è un attacco di quelli che fanno tremare le gambe ma tenevo in serbo le parole forti per dopo.
     “Que-que-que…”.
     “Ehi! Chi è che fa il verso dell’anatra?”.
     “Que-que-questa è una tel-tel-telefonata ano-ano-anonima, bas-bas-bastardo!”.
     “Larry Bronco detto appropriatamente Tartaglia, che cosa vuoi da me?”.
     “Caz-caz-cazzo! Come hai f-f-fatto a ri-ri-riconoscermi?”. Poco fa dicevo che la malavita non usa l’ironia e vi giuro che quella era del tutto involontaria. Sì, posso assicurarvi che quel poveretto non voleva fare lo spiritoso ed era in buona fede. Anche se era della mala.
     “Semplice intuizione”, risposi. Non mi andava di umiliarlo.
     “As-as-ascolta, str-str-str…”.
     Provai ad imbeccarlo: “Strepitoso?”.
     “No. As-as-ascolta, str-str-str…”.
     Tentai ancora di aiutarlo: “Strabiliante?”. D’altronde parlando di me quelli erano gli aggettivi che mi sembravano più appropriati.
     “No. As-as-ascolta, str-str-str…”.
     Pativo sinceramente per lui: “Stratosferico?”.
     “No. As-as-ascolta, stronzo!”. E ti pareva! “Dove hai me-me-messo le nostre ru-ru-rubelliti?”.
     Ma erano tutti fissati col sottoscritto, perdiana! Ma, un momento! Com’era possibile che Tartaglia e Ganascia reclamassero il bottino da me, quando già avevano ucciso due persone per entrarne in possesso? Il cervello mi stava andando in ebollizione… Sentii una voce in sottofondo suggerire al mio interlocutore: “Digli che se non ce le rende entro stasera può considerarsi un uomo morto”.
     E Tartaglia ubbidiente: “Se non ce le re-re-rendi entro sta-sta-sta…”.
     Mi ritenni in dovere di provare ad ottimizzare la comunicazione: “Senti, Tartaglia. Forse è meglio se mi passi il tuo compare. Non vorrei finiste i gettoni”.
     Un attimo dopo ebbi modo di ascoltare la stessa voce bassa che due giorni avanti aveva dato il via a tutta quella vicenda: “Non fare il furbo con noi, demente”.
     “Toh! Chi non muore si risente, eh Ganascia?”.
     “Ma chi sei, brutto pezzo di merda? Come fai a conoscere il mio nome?”. Evidentemente non sapeva di parlare con colui che aveva intercettato la sua telefonata di martedì sera a Les Ciattanuga. Proseguendo fu proprio lui a suggerirmi una pista percorribile: “Tanto l’abbiamo già capito: sei uno della mafia di Burgos”.
     Anche se il giorno prima ero stato scambiato per un emissario di Peter Fauna, mi dissi che era bello anche variare: “Sei perspicace, Ganascia. Sono Fausto Kazz e appartengo proprio alla mafia di Burgos che, secondo me, è anche la migliore mafia oggi in circolazione. Quindi ti conviene parlare con il rispetto che si conviene”.
     Dopo un attimo di incertezza, lo scagnozzo del clan degli Abbatecola disse: “Ok, Kazz. Sappiamo che le nostre rubelliti le hai tu. Dicci pure cosa vuoi in cambio, ma devi darcele indietro in tutti i modi”.
     Forse mi conveniva davvero farglielo credere: era l’unica maniera per non essere fatto secco. Pertanto dissi con tono sprezzante: “Calma, ragazzo. Tu e Tartaglia dovrete frenare la vostra ingordigia. Prima voglio sapere com’è che siete sulle mie tracce”.
     Ganascia esitò, poi principiò: “Abbiamo i nostri informatori. Quello che non capisco è come la mafia di Burgos sia stata così tempestiva nell’intervenire… Sembra quasi che una talpa vi abbia avvertito… Sei stato visto due giorni fa piuttosto indaffarato in Via Spruce, nell’appartamento di un fachiro di nostra conoscenza. C’è chi ti ha beccato ieri all’alba nel Trentadindos, in Viale Barracuda, mentre ti introducevi in casa dell’ormai defunto dottor Latimer. Qualcun altro poi assicura di averti incrociato ieri sera dalle parti di Farf Road, nel Bar Abba dove hai fatto di tutto per non passare inosservato”. Perdiana! Giudatown è davvero quel covo di spioni di cui si parla un po’ dappertutto! Ganascia insistette: “Ringrazia Dio se chi ci ha passato queste notizie è pagato solo per fare appostamenti e non può prendere iniziative. Se io e Tartaglia non fossimo stati occupati altrove e avessimo potuto agguantarti per tempo, saresti già sul fondo del limaccioso fiume Spinace con un’ancora da transatlantico legata al collo”.
     “Già. E sul fondo del limaccioso fiume Spinace ci sarebbe con me anche l’unica possibilità che avete di ritrovare le vostre rubelliti”.
     Ganascia si morse il labbro. Cioè, non posso dirlo con certezza perché non lo vedevo, ma lo dedussi dalla pausa che fece. Poi disse: “Dicci quanto vuoi”.
     Che soddisfazione tenere in pugno gente di malaffare come quella! Dettai dunque le mie condizioni: “Le rubelliti sono al sicuro per adesso. La mafia di Burgos vi farà sapere quanto prima. Forse addirittura in giornata lascerò un messaggio per voi al Bar Abba. Siete di casa lì, no?”.
     “Certo”.
     “Bene, recapiterò le istruzioni a quel cretino di Clancy. Un’ultima cosa: con Rocco Roller come la mettiamo?”.
     “Come diavolo fai a sapere tutte queste cose, dannato Kazz? La mala di Don Ceppo ce l’ha messo alle costole fin dall’inizio di questa storia. Se non era per quel cane rognoso sarebbe andato tutto liscio e da Kiko Puntar le rubelliti sarebbero arrivate direttamente in mano nostra… Be’, comunque, contiamo di eliminare Rocco Roller entro un paio di giorni…”.
     “Ok. A presto”.
     Appena riattaccai la cornetta corsi al mio tavolo e dal vetro guardai verso i telefoni pubblici: ebbi solo il tempo di vedere un’auto scura chiudere velocemente gli sportelli e partire con una sgommata in gran stile.

     Come al solito, nei momenti più difficili di ogni buona indagine, occorreva prendersi una sana pausa meditativa. Fu così che, secondo un’abitudine vecchia di quand’ero ragazzino, me ne andai a tirar sassi al laghetto di Point Giabé. E’ un’attività che da sempre stimola l’acutezza del mio intuito investigativo. Point Giabé, come voi tutti sapete, è una ridente località della campagna che circonda la parte sud-orientale di Giudatown; lanciare i sassi nel laghetto mi serviva ad ottenere la massima concentrazione circa i casi che stavo risolvendo. Come diceva quel proverbio che mi ero inventato di sana pianta: “Allorché lo Zingo si reca a Point Giabé a tirar sassi, scampo non v’è più per ladri, furfanti e satanassi”. Comunque non sceglievo i ciottoli piatti, fini e di modeste dimensioni per poi farli saltellare sul pelo dell’acqua fino al centro del laghetto o giù di lì. No, tutt’altro. La concentrazione potevo raggiungerla solo attraverso un  metodo più rudimentale: arrivavo al laghetto, posavo il mio spolverino sulla sponda, indi sceglievo i pietroni più consistenti e li lanciavo in acqua a due mani; era proprio lo stonfo del pilloro che mi dava soddisfazione, quel PLUNF sordo che rompeva regolarmente il silenzio e la quiete di Point Giabé. Così feci quella tarda mattinata, dopo aver recuperato la Scaberwilly ed aver compiuto diverse assurde deviazioni per assicurarmi di non essere seguito da nessuno.
     Una volta arrivato al laghetto, stessa procedura di sempre: mi appropinquai alla riva, tolsi lo spolverino, individuai il primo sasso e via: PLUNF!
     Oh, dunque: s’imponeva a questo punto dell’indagine un confronto tra le parti.
     PLUNF!
     Se riuscivo a radunare tutti assieme i protagonisti di quella fosca vicenda, analizzarne i reciproci comportamenti...
     STCHLAFF!
     ...studiare le relazioni che intercorrevano tra i vari gruppi malavitosi, con tutta probabilità sarei riuscito a farmi un quadro generale più preciso. E allora giù, un altro masso in acqua!
     PLUNF!
     Qui v’era qualcuno che non la contava giusta; chi stava barando al gioco? Chi voleva fregare chi?
     STPLUMFF!!
     “Oooohhh!!”, sentii vociare alle mie spalle.
     Mi voltai e vidi sortire dal canneto a lato un omaccione con grande buzza, grande bazza, grande stazza, cosce grosse e calosce rosse. Il tale pareva imbestialito e i suoi occhi accigliati mi misero subito sul chi va là. Infatti dissi: “Chi va là?”.
     E quello, venendomi fin sul viso con fare assai minaccioso: “L’abbozzi o no di farmi scappare le tinche?”.
     “Prego?”.
     “E’ mezz’ora che sto cercando di pescare qualche tinca di là dal canneto. Ma con te che ti metti a far baccano con quei sassi…”.
     “S-sì, salve… Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e sto tirando i sassi perché mi aiuta a risolvere un caso davvero spinoso…”.
     “Ascolta, cretino: se non la smetti immediatamente ti sfondo il capo con un cazzotto”.
     Come negare un favore ad un personaggio tanto schietto? Ma soprattutto: come negare un favore ad un gigante alto due metri? Affare fatto: me ne andai zitto zitto.
     Tuttavia, la quiete di Point Giabé aveva dato i suoi frutti e già un abbozzo circa il da farsi adesso v’era. Poi più tardi, mentre rientravo in città con la Scaberwilly, mi venne l’ispirazione finale ripensando ad un vecchio film con Johnny Flint, ‘L’uomo dalla mano mozza’. Nella sequenza conclusiva di quella gloriosa pellicola il protagonista (un Flint strepitoso), dopo aver ricorso ad uno sfrenato doppiogioco con i suoi aguzzini, si trova a dare un appuntamento finale a tutti gli avversari che aveva via via accumulato nel corso del film. Ebbene l’epilogo ha luogo in un porto oramai in disuso: Flint fronteggia con la consueta classe i suoi avversari in un drammatico scontro che sfocia poi nell’epica sparatoria risolutiva. Sì, va bene, chi ha visto il film sa che Johnny Flint ci rimane secco al primo colpo (mica è facile sostenere una sparatoria se la mano buona è proprio quella, da qui il titolo del film, che ti hanno mozzato nella scena iniziale del lungometraggio!) ma a questo punto la decisione era presa: la ganga di Vanv, il clan degli Abbatecola, Rocco Roller e lo Zingo si sarebbero dati adunanza per la decisiva resa dei conti nel Molo di Frombole, l’antico porto di Giudatown caduto pressoché in rovina dopo la costruzione dell’avveniristico Port Glan.
    
     Verso l’ora di cena ero di nuovo nell’Old Begallus. Principiai col recarmi al Bar Abba dove intendevo lasciare al barista Clancy un’informazione per Ganascia e Tartaglia.
     Quando entrai in quella vaporiera, v’erano molti meno avventori rispetto alla sera dell’esibizione di Eva Margutte. Raggiunsi il bancone e quando stavo per richiamare l’attenzione di Clancy, una mano mi agguantò bruscamente la spalla e una voce bassa mi gracchiò all’orecchio: “Spero tu abbia portato con te le rubelliti, brutto stronzo”.
     Mi voltai: era Ganascia.
     Gli dissi: “Non faccio consegne a domicilio. Non qui, perlomeno. Ma siamo vicini alla meta, caro Ganascione”.
     “Diavolo, la stai portando troppo per le lunghe! I miei capi non hanno intenzione di aspettare ancora...”.
     Lo interruppi: “E invece dovranno pazientare ancora fino a domani”.
     “Domani?”, chiese lui bramoso.
     “Sì, ci siamo. La mafia di Burgos, di cui sono – te lo ricordo – socio fondatore, è decisa a trattare la consegna. Mi ha dato mandato di stabilire un abboccamento. C’incontreremo domani alle 8 di sera presso il Molo di Frombole: io, tu, Tartaglia e nessun altro. Non pretendiamo nessun riscatto in soldi, ma soltanto alcuni accordi”.
     “Di che genere?”.
     “Mordi il freno, guappo. Saprete tutto domani sera”. In effetti non mi ero preparato a dovere sui dettagli di quella combine, dunque era meglio rimanere sul vago e cambiare discorso: “Insomma, qui come si va? Tartaglia? Dov’è andato di bello?”.
     “Di’ un po’, Kazz: credi di essere a casa tua? Se non ti faccio staccare la testa da Clancy è solo perché attraverso le tue informazioni possiamo rientrare in possesso delle rubelliti che ci spettano. Per il resto ti conviene girare alla larga da me e dal mio clan”.
     Mi finsi del tutto imperturbabile: “Siamo un po’ nervosi, mi pare... I tuoi superiori ti stanno col fiato sul collo, eh?”.
     “Già. Occorre che domani sera tutto vada a buon fine, altrimenti...”.
     “Per voi si mette male, non è così?”.
     “Anche per te, coglione, puoi giurarci”.
     Prima di andarmene volli tuttavia interloquire ulteriormente col Ganascia: “Un’ultima cosa, prima di levare le tende: se Baita non avesse preso accordi sottobanco con quelli di Vanv sarebbe ancora vivo?”.
     “Pegus era un collaboratore ideale, prima che si montasse la testa. Per anni ha servito la causa con grande fedeltà. Dio, nella sua pancia ci abbiamo ‘parcheggiato’ di tutto! Corindoni, rubelliti, droga, documenti, fasci di banconote, monili antichi... E si è sempre accontentato della sua parte, senza mai fare storie. Stavolta, invece, si è fatto abbindolare da quelli della ganga... Chissà per quali false promesse si è venduto... Quelli di Vanv, prese le rubelliti, lo avrebbero senz’altro tolto subito di mezzo. Con noi invece poteva stare tranquillo: ingoiava la merce e poi, a tempo debito...”.
     “Magari con l’aiuto di un vassoio di prugne, eh Ganascia?”.
     “Non ho mai assistito al recupero della roba. Di certo posso dire che il Baita non ha mai accumulato ritardi nelle consegne”.
     “Intestino regolare, devo ritenere...”, soggiunsi. Era giunto il momento del commiato: “Bene. Mi tratterrei volentieri qui al Bar Abba, ma ho diverse faccende da sbrigare. Ci vediamo domani sera alle 8 al Molo di Frombole per sistemare definitivamente questa vicenda”.
     Feci l’atto di voltarmi verso l’uscita, quando Ganascia mi afferrò per un braccio e, fissandomi gelido, mi disse: “Ricordati, Kazz: chi fa il furbo con gli Abbatecola…”.
     “Sì, lo so: alla fine s’impegola”.
     “No. Alla fine muore”. Capii che i gangster dell’Old Begallus non gradivano le rime baciate. Tuttavia esprimevano i loro concetti piuttosto chiaramente.
     Una volta fuori del Bar Abba, camminai lentamente per strada, tenendomi bene in vista lungo il marciapiede, sostando più volte e volgendo spesso la faccia alla strada; sapevo infatti che il Picciotto e il Piccione piantonavano tutta la zona nei dintorni del bar e volevo che... casualmente mi agganciassero onde poter riferire anche loro gli estremi dell’appuntamento al molo. Giusto il tempo di oltrepassare l’incrocio con Rue della Pizza quand’ecco che due secchi colpi di clacson mi fecero voltare all’indietro: parcheggiata lungo il marciapiedi dalla parte opposta della strada una Pirrowet color canna di fucile mi sfareggiò con gli abbaglianti. Attraversai di corsa e m’infilai direttamente nella macchina degli amici vanveri sul sedile posteriore. Il Picciotto e il Piccione, seduti davanti, mi accolsero con una certa sorpresa: “Chi non muore si rivede, eh Kazz?”.
     “Già. E se fossi morto, oltre a non rivedere più me, mi sa tanto che non rivedreste neppure una sola delle vostre amate rubelliti”.
     “Vedo che ti muovi con grande facilità in questa zona”, mi fece Otto il Picciotto con tono lievemente sospettoso. “Non sapevo che gli emissari di Peter Fauna potessero scorrazzare tanto liberamente da queste parti”.
     “Infatti è cosi. Ma nei miei confronti, visto che sono nato in questo quartiere, c’è una certa benevolenza... Con molti farabutti del clan degli Abbatecola siamo stati ragazzi insieme... Se poi le scelte professionali mi hanno portato a firmare un contratto col Fauna, questo è un altro discorso...”. Una puttanata dietro l’altra! “Comunque, ragazzi”, ripresi brusco, “ho buone notizie per voi. Avrete senz’altro saputo che il Baita ci ha lasciato le penne. Dispiace a tutti, ma è così. Bene, il fachiro però non è stato fatto secco dagli Abbatecola; per un caso piuttosto fortuito a metter le mani sul povero Pegus, e quindi sul suo prezioso ‘contenuto’, è stato un tale Rocco Roller che lavora per la mala di Don Ceppo”.
     “Sì, lo conosciamo quel dannato segugio! E’ dall’inizio di questa storia che si è messo tra i piedi! Fottuto bastardo!”; il Picciotto colpì violentemente lo sterzo con un pugno carico di rabbia.
     E qui piazzai a quei due babbalei la panzana dell’anno: “Non vi sembrerà vero, ragazzi, ma oggi pare essere il vostro giorno fortunato. Chi era il compagno di banco di Rocco Roller alle scuole elementari?”.
     Mutismo assoluto e sguardi che dimostravano scarso intuito.
     “Chi era?”, chiesi paziente per la seconda volta. “Ebbene, sì. Il compagno di banco che per tutta la carriera scolastica passò al Roller i compiti, che sempre gli suggerì durante le interrogazioni, che imparò a falsificare la firma del di lui babbo sul libretto delle giustificazioni, ebbene altri non era che Fausto Kazz il secchione, ovvero io. Eehh, bei tempi!”.
     “E allora? Che significa?”, chiesero in coro i due sempliciotti.
     “E allora significa che Rocco Roller, da buon amico, incontrandomi casualmente oggi a pranzo mi abbia passato l’informazione: siccome la mala di Don Ceppo non smercia rubelliti, lui ha tutta l’intenzione di trovarsi a titolo personale un acquirente e ricavarci moneta sonante; conosco Roller, non è tipo di grandi pretese, sa accontentarsi... Mi sono permesso di suggerirgli l’ipotesi di qualcuno che sarebbe interessato al bottino: ho pensato a voi, ragazzi, sebbene mi sia guardato bene dal fare nomi”.
     “Hai fatto la cosa giusta, Kazz. Ma le rubelliti noi non le vogliamo pagare, le vogliamo e basta”. Insaziabili questi vanveri, perdìo!
     Era il momento di gettare l’esca: “Questo non è affar mio. Se vi interessa, sappiate che io ho un appuntamento con Rocco Roller presso il Molo di Frombole alle 8 di domani sera in punto. Gli ho detto che avrei fatto da intermediario tra lui e un paio di compratori che per il momento preferivano rimanere anonimi”.
     “Mm... interessante”, gongolò il Picciotto.
     “Io vi do questa opportunità. A Peter Fauna – lo sapete – questi affari non interessano, lui gestisce altre attività. Magari, se le cose per voi andassero a buon fine e il ‘trappolone’ ai danni di Roller dovesse fruttarvi ottimi risultati, Peter avrebbe piacere – sono parole sue – ‘a intavolare un discorso di collaborazione con gli amici di Vanv’”.
     “E cioè?”, s’informò il Piccione.
     “Tutto a tempo debito. Per adesso preoccupiamoci che domani sera al Molo di Frombole tutto vada per il verso giusto. Poi brinderemo tutti assieme: voi e la vostra ganga, Peter Fauna e io. Siamo d’accordo?”.
     Tesi in avanti la mia mano destra.
     Passò qualche istante ma alla fine, dopo un’occhiata d’intesa, sia il Picciotto che il Piccione me la strinsero con una certa convinzione. Secondo me, tuttavia, la loro golosità gli faceva già programmare il modo in cui, una volta entrati in possesso delle rubelliti, si sarebbero dovuti sbarazzare anche del sottoscritto per non scendere a nessun tipo di patto col Fauna. Glielo leggevo negli occhi cupidi e bramosi.
     “Un’ultima cosa, Kazz: che ci facevi al Bar Abba poc’anzi?”, chiese il Piccione.
     “E’ una domanda pertinente, vecchia volpe di un Piccione. Mi sono intrattenuto con Ganascia del clan degli Abbatecola. Senza sembrare troppo invadente, ho voluto capire quanto realmente sapesse circa la sorte delle rubelliti”.
     “Ebbene?”.
     “Niente. Non ha il minimo sospetto che dietro a tutto ci sia il segugio Rocco Roller. Per lui quella sacchettata di gemme preziose è svanita nel nulla. Certo, non l’ha presa bene. Era lì che ciondolava al bancone del bar, aggrappato ad una boccia di whisky e parlava assai controvoglia”.
     Prima di uscire dalla Pirrowet, chiesi infine: “Allora? Vale la pena mettersi in affari con Fausto Kazz?”.
     “Ci vediamo domani sera alle 8 al Molo di Frombole. Niente scherzi”, rispose il Piccione. Poi, appena fui sceso, filarono via lungo Farf Road.
     Sulla presenza di Rocco Roller al Molo per il giorno dopo invero non avevo grossi dubbi: sapevo che il segugio era attaccato alle sottane di Ganascia e Tartaglia e non li perdeva di vista nei loro spostamenti più importanti. Perlomeno di lui non dovevo curarmi. Sapevo insomma che, a meno che non fosse per davvero entrato in possesso delle rubelliti, sarebbe venuto a reclamarle direttamente all’appuntamento.

(...continua...)