domenica 29 gennaio 2012

ZINGO n° 3 "Grosso guaio a Giudatown" (6a parte)

(...segue...)

     Il giorno seguente impiegai tutto il pomeriggio ad accertarmi che nessuno fosse sui miei passi. Era fondamentale evitare di essere pedinato. Così girovagai per tutta Giudatown con l’unico scopo di far perdere le mie tracce a chiunque si fosse messo a seguirle. Camminai a piedi, usai mezzi pubblici e mi spostai infine con la Scaberwilly (dopo averla recuperata ben lontano da casa) fino a parcheggiarla a un paio di chilometri dal molo.
     Pur essendo il ritrovo fissato per l’ora di cena, arrivai sul luogo convenuto con due ore di anticipo: sì, volevo studiare bene il posto e conoscerne perfettamente anfratti, nascondigli e vie di fuga. Già all’imbrunire il freddo penetrava nelle ossa, eppure la grande tensione mi faceva sudare come un antilope nella stagione degli amori. Dopo perlustrazioni accurate e vari giri di ronda trovai finalmente un angolino ideale per rimpiattarmi: la cabina di un vecchio peschereccio in disuso, ormai ritiratosi in pensione e ormeggiato nella penombra; da lì potevo tenere d’occhio l’intero scalandrone.
     Il Molo di Frombole, un luogo tutt’altro che romantico anche in pieno giorno, diventava ancora più lugubre nel buio di quella fredda notte d’autunno; il mare si rompeva con fracasso regolare lungo i frangiflutti di cemento, il vento ululava con quanto fiato aveva in gola e l’acquazzone non risparmiava tuoni e saette. Era forse quello il giorno del castigo?
     Più le lancette si avvicinavano a marcare le 20, più cresceva il pentimento per essermi ficcato in quella situazione. D’accordo, a quel punto dell’investigazione avevo bisogno di mettere a confronto diretto tutti i protagonisti della vicenda, ma partecipare a un tal conclave di delinquenti poteva costarmi davvero caro (e pensare che nessuno mi pagava per quella maledetta indagine! Ah, come vivrei meglio in generale se non avessi dentro di me questo forte senso del giusto…). Il rammarico si trasformò in panico quando alle 20 spaccate vidi i fari di una macchina parcheggiare non lontano dalla darsena. Dopo poco due sagome scure si avvicinarono furtive a piedi fino ad arrivare allo scalandrone. Dal nascondiglio ove ero rintanato riconobbi piuttosto facilmente una delle due figure: Ganascia. L’altro doveva essere Larry Bronco detto Tartaglia. Al riparo dei loro ombrelli scrutavano attorno con diffidenza. Lo sciabordio del mare contro la fiancata del peschereccio di cui avevo preso possesso m’impedì di udire le parole fitte che si scambiarono. Poi a un tratto vi fu un rumore da una delle file di silos, forse il cigolio di un portellone. Ganascia urlò in quella direzione: “Chi va là? Kazz, sei tu?”.
     SGRANG! Per tutta risposta dai silos partì un colpo di bombarda che quasi polverizzò l’ombrello di Tartaglia. Costui gridò: “Per la pe-pe-pe-peppa!”. I due del clan degli Abbatecola si ritrassero fulminei fino a nascondersi dietro le rotaie di una mancina scortecciata. Appena ebbe ripreso fiato, Ganascia urlò: “Accidenti a te, Kazz della malora! Che razza di trappole ci prepari?”.
     Dovevo pur dire qualcosa: “Ohilà, ragazzi! Tutto bene?”.
     Ganascia urlava tutta la sua rabbia: “Imbecille che non sei altro, non ci hai riconosciuto? Ci è mancato poco che ci portassi via la testa di netto!”.
     “Ci deve essere un equivoco”, seguitai a vociare senza mostrarmi. “Io non ho sparato nessun colpo”.
     “Non pensare di farla franca, Kazz! Adess…”.
     SGRANG! La bombarda assassina colpì il telaio della grossa gru dietro cui stavano nascosti, provocando un fragore metallico e zittendo il Ganascia.
     Fu allora che dalla parte dei magazzini, ovvero dall’ala sud del molo si udirono tre fitti spari di fucile: BAM! BAM! BAM! Era chiaramente un Navinger. Dunque persino il Picciotto e il Piccione erano adesso della partita, anch’essi nascosti alla vista. Capii a quel punto chi era a maneggiare la bombarda dal lato nord, quello dei silos: altri non poteva essere che il segugio Rocco Roller, infaticabile pedinatore. Era la resa dei conti e se qualcuno quei conti pensava di farli senza l’oste-Zingo si sbagliava di grosso.
     RA-TA-TA-TA-TA!!! Ganascia e Tartaglia mitragliarono alla rinfusa verso i magazzini. Si erano forse resi conto che non potevo aver organizzato tutto da solo; avranno pensato che qualcuno li aveva seguiti fin lì.
     La ganga di Vanv parlò per bocca di Otto il Picciotto: “Kazz! Rispetta i patti!”, lo sentii sbraitare da lontano.
     “Ecco sì, rispettali!”, berciò Ganascia rafforzando il concetto.
     SGRANG! Rocco Roller sembrava non amare il dialogo e lasciava che a trattare fosse la sua bombarda.
     Forte del fatto che nessuno di quei criminali avesse ancora capito la posizione del mio nascondiglio, presi coraggio ed urlai: “Vedo che stasera c’è il pubblico delle grandi occasioni. Bene, signori. Chi vuole le rubelliti se le dovrà sudare”. Parevo proprio il Johnny Flint di ‘L’uomo dalla mano mozza’, sicuro e ardimentoso.
     “Maledetto! Peter Fauna pagherà caro questo scherzetto!”, gridarono in coro i due vanveri.
     “Maledetto! La mafia di Burgos pagherà caro questo scherzetto!”, fece eco Ganascia a nome del clan degli Abbatecola. Le minacce erano grosso modo le medesime, ma ognuno aveva il suo destinatario cui inviarle. Avevo scatenato una guerra senza eguali tra le cosche! E Rocco Roller, chiederete voi? Lui parlo così: SGRANG!
     Dopo quell’ennesimo colpo di bombarda si scatenò il putiferio.
      RA-TA-TA-TA-TA!!! RA-TA-TA-TA-TA!!!
     BAM!!! BAM!!! BAM!!!
     SGRANG!!!
     RA-TA-TA-TA-TA!!! RA-TA-TA-TA-TA!!!
     BAM!!! BAM!!! BAM!!!
     SGRANG!!!
     A quel punto volli partecipare anch’io a quella sagra della pistolettata. Spenzolai un braccio dalla cabina del peschereccio, puntai verso l’alto il mio revolver e al grido di “Ma andate tutti a fa’ ‘n culo!” scaricai in aria un tris di colpi: BANG! BANG! BANG! Così, tanto per non uscire dal coro, ecco. Mi piaceva l’idea di prendere parte a quella gran caciara.
     Fu proprio allora che dal mare si accese un faro accecante che illuminò il molo quasi a giorno.
     “Chi v’è?”, ebbi appena il tempo di chiedermi.
     Un battello era entrato nel molo a motore spento senza che si potesse rivelarne la presenza. Era forse la guardia costiera nel suo servizio di controllo notturno?
     PUM! PUM! PUM!
     No, la guardia costiera non spara cannonate nei porti.
     La situazione stava degenerando. Chiunque fossero quei pazzi sul battello, era rischioso rimanere lì anche un minuto di più. Nel fuoco di fila che seguì tra quelli sull’imbarcazione e i malavitosi nascosti a terra, tra imprecazioni e urla di dolore, capitò che per fortuna un proiettile infranse la lampada del riflettore del battello e il molo ripiombò nella sua naturale oscurità.
     Non persi tempo e scesi subito dal peschereccio sgusciando fuori dal mio nascondiglio. ‘Sgusciando’ è proprio la parola giusta perché i miei mocassini non erano le scarpe più indicate per fare l’equilibrista su una passerella bagnata: picchiai una gran culata sul cemento, evitando per poco l’acqua, travolgendo un bidone e producendo un gran rumore.
     “Ec-Ec-Ec-Ec-colo là! E’ Fa-Fa-Fa-Fa-Fausto Kazz!”. Fortuna che a dare l’allarme fu Tartaglia; quelle raffiche di ‘Ec’ e ‘Fa’ mi concessero qualche secondo di vantaggio in più e mi permisero di rialzarmi e scappare via lungo la ripa sdrucciolevole. Scelsi la direzione sud, la stessa dove avevo lasciato la Scaberwilly (sebbene molto lontana dalla strada che conduceva al molo). Dietro di me udivo distintamente grida e deflagrazioni: mentre zigzagavo tra le pozzanghere i proiettili mi fischiarono vicino. Pensai che la mia ora fosse giunta. I peggiori ceffi di Giudatown mi stavano alle calcagna come lupi alsaziani insaziabili e sapevo che non si sarebbero lasciati sfuggire tanto facilmente una preda così sconsiderata da averli voluti affrontare a viso aperto. Ad un tratto udii la voce del Picciotto: “Ecco lo vedo: quella sagoma davanti a noi! Lo tengo sotto tiro, quel Fausto Kazz della miseria!”. Il Piccione gridò concitato: “Sparagli, dài! Mira alla testa di Kazz!”.
     BAM! BAM!
     “Cilecca, faccia di Kul!”, urlai a mia volta.
     I miei mocassini invero mi furono a quel punto di grande aiuto: correndo sfrenatamente lungo il bordo della banchina, un bordo reso assai scivoloso dalla pioggia mista alla salsedine, quelle care calzature di cuoio slittarono via in aria facendomi perdere l’equilibrio. Finii in mare con un tonfo alquanto spettacolare e ben ricordo che detti una disgustosa gozzata di acqua salata, nafta e kerosene. Mi venne in mente uno dei precetti fondamentali che, quand’ero ragazzo, soleva impartirmi lo zio Chester: “Ricordati, Dino: bere il kerosene alla salute non fa per niente bene”. Eh, lo zio Chester! Mi ha insegnato tante di quelle massime… Comunque il volo in mare fece sì che i miei inseguitori, complice il buio quasi totale, perdessero le mie tracce di colpo seguitando la loro rincorsa lungo il molo e perdendosi nella foschia di quella drammatica notte tra berci, bestemmie, spari e smitragliate varie.
     Quando a fatica sortii dall’acqua potei vedere entrare nel porticciolo di Frombole una navetta con una luce lampeggiante sulla cima dell’albero: una voce al megafono intimava a quelli del battello col cannoncino di uscire sul ponte a mani alzate. Quella sì che era la vera guardia costiera!
     Siccome però non era mia intenzione essere coinvolto in beghe che avrebbero soltanto rallentato la mia indagine, mi defilai lesto come una torpedine e, pur zuppo d’acqua, m’incamminai di nuovo nella direzione ove avevo parcheggiato la Scaberwilly. Gli spari dei mafiosi erano ormai un’eco lontana ma occorreva comunque la massima prudenza.
     Nel tragitto che percorsi a piedi, mentre il freddo mi faceva battere i denti, rimuginai su quanto accaduto. Sul luogo dell’appuntamento si erano presentate tutte le forze in campo: Ganascia e Tartaglia, il Picciotto e il Piccione e financo Rocco Roller. Tutti con un unico, medesimo scopo: impadronirsi delle fantomatiche rubelliti che, chi per un verso chi per un altro, tutti pensavano fossero nelle mie mani. Ma, ragionavo io molto appropriatamente, se quei gangster si erano adunati al Molo di Frombole pronti a scannarsi l’un l’altro v’era da giurare sul fatto che nessuno di loro stesse bluffando o stesse facendo il doppiogioco. Dannazione! Quell’indagine era un vero rompicapo e mi procurava un bel grattacapo. Oltretutto da lì in poi li avrei avuti tutti contro, non avrei più potuto contare su alleanze di fortuna. Era chiaro che mi ero voluto far beffe di loro.
     No, dissi tra me sotto il diluvio, c’è qualcosa che sto trascurando. Dovevo ripartire dall’inizio, ovvero da quell’angusto cortiletto dietro al negozio di grancasse ove era stato nascosto il cadavere di Pegus Baita, uno dei più grandi fachiri dell’era moderna. Da lì qualcuno (qualcuno che non fosse nessuno dei malavitosi presenti al Molo di Frombole) aveva pur dovuto prelevare la preziosa salma del povero Pegus. C’era in effetti una lacuna nella mia indagine: avevo mancato di interrogare Art Gropp, il noleggiatore di grancasse. Egli era infatti in negozio al momento della sparizione del cadavere, prima che Tegolo ‘il babbeo’ gli desse il cambio verso l’ora di chiusura: la sua testimonianza avrebbe forse potuto chiarirmi qualche punto oscuro; magari, chissà, il Gropp si poteva all’improvviso ricordare il nome, o magari anche soltanto le fattezze, di un cliente che si era mosso in maniera furtiva e sospettosa all’interno della sua bottega la sera dell’omicidio. Sì, una visita ad arte ad Art Gropp sarebbe stata la mia prossima mossa.
     Detti un’occhiata all’orologio: le 21 erano passate da poco. Considerando che ero ormai vicino al posto dove avevo lasciato la macchina, forse avrei fatto in tempo a recarmi dal Gropp quella sera stessa. Certo, fradicio a quella maniera, non ero molto presentabile ma… a quel punto le formalità erano da tempo andate a farsi fottere.
     Arrivai alla Scaberwilly nel giro di un quarto d’ora e razzolai nel portaoggetti sotto il cruscotto dove tenevo un elenco telefonico e uno stradario della città. Dunque: Art Gropp abitava al numero 55 di Via Kalimba de Luna, nella zona collinare dell’Eastern Circus, quartiere ameno di cui non si potrebbe fare a meno. Pigiando sull’acceleratore come so fare quando mi ci metto d’impegno, vi sarei potuto giungere in orario ancora decente per suonare al campanello senza ricevere in risposta improperi o secchiate d’acqua ghiaccia.
    
     La dimora di Gropp era un edificio unifamiliare piuttosto ben tenuto. Parcheggiai la Scaberwilly davanti alla casa, scesi e arrivai alla porta d’ingresso; stavo per suonare il campanello quando sentii chiaramente una voce d’uomo (il Gropp, presumibilmente) provenire da dentro e parlare fitto fitto vicino alla finestra semiaperta, quasi rivolto verso l’esterno, in modo un po’ clandestino come per non farsi sentire da qualcun altro della casa; la voce diceva: “D’accordo, Les. Farò come dici”.
     Pausa.
     “Sì, capisco”.
     Pausa. Capii che l’uomo era al telefono.
     “No, aspetta, Les. Non suonare alla porta, perché in casa c’è quella megera di mia moglie Nilla. Vieni direttamente sul retro. Ti aspetto in giardino, nella baracca dove tengo gli attrezzi”.
     Pausa.
     “Ok, Les, ci vediamo tra cinque minuti”.
     Vi garantisco che la sorpresa di quel rapido colloquio mi fece spalancare occhi e bocca in un’espressione di rara maraviglia. Poche battute che davano finalmente un senso tutto nuovo alla mia indagine: il Gropp e Les Ciattanuga in combutta contro tutti e tutto! Sì, certo, quel Les al telefono avrebbe potuto anche essere un omonimo, ma se non sapessi fiutare il caratteristico odore della puzza di bruciato non farei questo mestiere. Non capivo bene il legame che poteva intercorrere tra i due, ma parecchi nodi a quel punto erano vicini allo sciogliersi. Tuttavia bisognava agire con la consueta pervicacia. Mi rimpiattai veloce dietro la mia Scaberwilly e mi misi in attesa. Di nuovo la voce risuonò dall’interno della casa, stavolta chiara e forte: “Nilla, esco in giardino; vado a sistemare le begonie nella capanna”. Detto fatto. Art Gropp, un omuncolo grasso e spelacchiato, uscì dalla porta di casa, la chiuse dietro di sé e prese poi a percorrere il vialetto di cemento che circondando l’abitazione portava nel giardino sul retro. Seguii la tozza figura del Gropp con passi felpati e silenziosi. Parevo un ozelot. V’era un gran buio, ma la sua torcia elettrica aiutava pure me a intravedere piuttosto bene il camminamento in cemento. L’obeso giunse alla baracca del giardino, entrò, accese la luce e chiuse la porticina. Mi sistemai nell’ombra in posizione strategica; quel capanno non aveva finestre ma le sue esili pareti di legno mi avrebbero permesso di ascoltare ogni parola. Gropp canticchiava felice.
     Dopo pochi minuti una macchina arrivò sulla strada all’altezza di casa Gropp con la classica inchiodata da film. Les Ciattanuga doveva essere proprio un bullo. Ma poi: SKATAPAMM!!!! Altro che bullo, Les Ciattanuga doveva essere proprio grullo. Forse non aveva calibrato bene la frenata e con tutta probabilità era andato a schiantarsi contro qualcosa lungo la via. Comunque eccotelo arrivare un minuto più tardi, avvicinarsi al capanno ed introdurvisi dopo un leggero triplo colpetto del pugno contro la porta.
     “Les! Che cos’era quel frastuono?”
     “Niente, Art. Ho picchiato con la macchina. Solo un graffio. Veniamo a noi: bisogna che tu nasconda qui in casa le rubelliti. Per me è diventato troppo rischioso”.
     “Qualcosa è andato storto?”, chiese ansioso il Gropp.
     “No, niente. Però c’è tensione tra i ragazzi del clan. Gli Abbatecola non tollerano il fatto che qualcuno gli abbia soffiato di sotto il naso 700 milioni di dindos… Quel cretino di Ganascia oltretutto giura di avermi telefonato appena dopo aver fatto secco il fachiro; dice di avermi ordinato di recuperare il cadavere nel tuo negozio e di portarlo subito dopo dal dottor Latimer”.
     “E tu l’hai fatto, del resto”.
     “Già, ma di testa mia, senza i suggerimenti di quell’imbecille. Io gli ho inventato che stavo fuori città quella sera ma Ganascia dice che al telefono gli ho pure risposto. Non so a che gioco stia giocando. Non vorrei che sospettasse qualcosa. Magari mi sta provocando per vedere se faccio qualche mossa sbagliata. Forse mi vuole tenere sulla graticola, il bastardo. Insomma, può darsi che il mio sia uno scrupolo eccessivo ma è meglio non correre rischi. Ecco, prendi, ti lascio in deposito le rubelliti, Art”.
     “Uuuh!”, fece estasiato l’ingordo Gropp. “Fammele vedere… Uuuh! Guarda, Les, guarda come luccicano… Ma quante sono! Uuuh! Lo sai cosa ci faccio con la mia parte? Pianto qui quella ‘cerbera’ di mia moglie Nilla, lascio il negozio e scappo via. Sì, Les, vado al mare. Mi comprerò una villetta dalle parti di Gruccia Bay, una di quelle con l’affaccio direttamente sulla spiaggia, sai? E li vivrò felice e contento per il resto dei miei giorni”.
     “Bravo, Art, ben detto”, fece Ciattanuga distrattamente.
     “Mi ci vedi, eh Les? Mi ci vedi sulla Playa de los Guardones a sorseggiare frappé su una comoda amaca o mentre massaggio le natiche ad un paio di procaci mignottone. Uuuh, già m’immagino la scena…”.
     “Sì, bene”, lo interruppe Ciattanuga con ben altri pensieri in testa. “Adesso ricapitoliamo. Ganascia e Tartaglia hanno il fiato sul collo di tutto il clan e questo ci permette una certa tranquillità nelle operazioni. I delitti di Baita e Latimer che gli ho fatto attribuire stanno creando loro un sacco di problemi. Tuttavia, per precauzione, lasciamo passare ancora qualche giorno; giusto il tempo di capire se quei due hanno annusato qualcosa attorno al sottoscritto. Tu intanto metti le rubelliti al sicuro, mi raccomando. Salvo emergenze, non mi chiamare. Mi farò vivo io”.
     Un paio di altre trascurabili indicazioni, un rapido saluto al socio e infine Les Ciattanuga, mefistofelico doppiogiochista, se ne andò dalla baracca lasciando la porta semiaperta. Dopo qualche istante sentii sgommare via la sua vettura. Il Gropp se ne stava ancora dentro quando una petulante voce di donna lo apostrofò da una delle finestre di casa: “Art! Idiota! Vieni a letto! E’ tardi”.
     “Arrivo subito, Nilla. Cinque minuti e sono da te”, urlò di rimando il Gropp alla moglie. Poi bofonchiò a denti stretti: “Brutta megera che non sei altro! Sfogati ora perché, tempo una settimana al massimo, io me ne vado a Gruccia Bay e col cavolo che mi rivedi!”.
     All’interno della sua baracca lo sentivo maneggiare le rubelliti e decantarne le lodi: “Ma guardatele! Brillano come stelle! Sono la luce dei miei occhi”. Il grassone principiò perfino a cantare a bassa voce un motivetto di fantasia e a inventarsi parole al limite del delirio: “Trallallero trallallà, le rubelliti eccole quaaa/ Ora me ne vado in fuga, col mio amico Ciattanugaaa/ Gruccia Bay è là che aspetta; mi ci faccio una casettaaa/ La rubellite è qui che brilla; vaffanculo a mi’ moglie Nillaaa/ Alla Playa de los Guardones, io ci porto le mignottoneees”.
     Decisi che era il momento di entrare in azione. Sortii dal nascondiglio e m’infilai nella baracca senza produrre il minimo rumore. Art Gropp era di spalle e seguitava a snocciolare stornelli in rima.
     Con un maligno tono di voce, simile a quello del vigile che pesca l’automobilista in sosta vietata, dissi all’improvviso: “Buonasera, Gropp”.
     Il noleggiatore di grancasse trasalì a tal punto che lì per lì pensai lo potesse stroncare un infarto. In una frazione di secondo coprì con un panno le rubelliti con cui stava gingillandosi e si voltò di scatto con il terrore negli occhi: “Chi siete? Che ci fate nella mia baracca?”.
     “Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e mi sa tanto che Lei dovrà rinunciare al quieto vivere di Gruccia Bay e ai suoi sogni lussuriosi sulla Playa de los Guardones”.
     “Fuori di qui! Chi vi autorizza a ficcare il naso laddove non dovreste?”. Il pingue Gropp non aveva in testa più di 25/30 capelli, invero molto lunghi, che faceva passare più volte in cima alla testa glabra con un riportino disgustosamente unto. Le gote paonazze tradivano la sua alterazione. La fronte imperlata di sudore tradiva la sua allerta. Il suo alito pesante tradiva alcuni ingredienti della cena: fichi e salame, o comunque affettati vari in gran copia.
     “Mi consegni immantinente quelle lucenti rubelliti”, gli dissi facendo gli occhi del basilisco. “Se Lei collabora, vedrò di evitarle rogne con la polizia”.
     “Le rubelliti sono mie; le difenderò con le unghie!”. Avido e impavido, il nostro Gropp.
     Non feci discorsi: con un ceffone a mano aperta gli sbalestrai il riporto. Il Gropp strillò acutamente dopodiché, pieno d’ira, mi offese senza mezzi termini la mamma.
     Decisi che con quel tipo avrei dovuto proseguire nella linea dura e mi predisposi ad un combattimento corpo a corpo: “In guardia, panzone!”. Quello, rallentato nei movimenti dalla spessa coltre di grasso, non ebbe neppure il tempo di parare il mio primo colpo. E dove lo colpii il Gropp secondo voi? Ma certo, proprio lì dove suggeriva il suo stesso nome. Infatti nel rifilargli quella percossa commentai ghignante: “Gropp! Prendi questa sul groppone!”.
     “Ma tu sei un vero judoka, porca l’oca!”, ammise con un gemito strozzato il noleggiatore di grancasse vedendosi ormai ad un passo dalla resa.
     Quel riconoscimento mi ringalluzzì alquanto: fulmineo quanto un falco smeriglio in picchiata, picchiai (appunto) il Gropp come un ladrone della sua risma meritava. In tutto sette sberle ben assestate, un paio di colpi alla schiena e una generale scrollatona finale: “Ora vuota il sacco, vile ghiottone di salumi. Come hai fatto ad impossessarti di queste gemme preziose?”.
     Sudato fradicio, il poveraccio scoppiò in lacrime: “Io… io… io non volevo… E’ stata tutta colpa di Les Ciattanuga. Io sono un povero negoziante onesto… Sigh! Sigh! Sigh!”.
     “La sua è un’autodifesa straziante. Ho il gropp in gola”. Mentii. In realtà anziché in gola il Gropp mi rimaneva un po’ più giù. Sullo stomaco. Seguitai con le intimidazioni: “Se non mi racconti tutto per filo e per segno, ti scotenno!”. Forse esagerai un po’ ma ormai ero completamente calato nella parte.
     Art Gropp principiò tra i singhiozzi il suo resoconto i cui punti fondamentali cercherò ora di riassumervi. Il noleggiatore di grancasse e Les Ciattanuga erano conoscenti di vecchia data, addirittura dai tempi del catechismo; per quanto le loro strade professionali fossero ben distanti, il rapporto d’amicizia li teneva tuttora piuttosto stretti. I fatti: qualche giorno fa Ciattanuga viene a sapere da due suoi ‘colleghi’, Ganascia e Tartaglia, che il fachiro Baita – residente proprio sopra la bottega del suo amico – custodisce in corpo per conto degli Abbatecola un bel paio di chili di rubelliti; odorato l’affare a danno del suo clan, si accorda con l’amico Art perché tenga d’occhio il Baita nella speranza di cogliere l’attimo propizio per fargli la festa; ma, per un caso del tutto fortunato, il cadavere del fachiro... ‘piove dal cielo’ la sera di martedì; un rumore sordo fa accorrere il Gropp nel cortiletto della sua bottega e chi ti trova infatti il grassone se non il Baita freddato da mani ignote? Gropp non indugia: avverte al telefono Ciattanuga il quale è prontissimo a far scattare il piano e a dare ordini dettagliati; Art infila dunque il corpo del fachiro all’interno di una grancassa Zurg e poi finge di doverla urgentemente consegnare di persona, tanto che chiede al proprio garzone di bottega, quel rintronato di Tegolo, di fare la chiusura per la sera. Carica tutto sul suo furgoncino Frana, passa a prendere Les Ciattanuga ed insieme si recano poi dal dottor Latimer in Viale Barracuda; il chirurgo, peraltro già avvertito da Larry Bronco detto ‘Tartaglia’, si mette tranquillo al lavoro ed estrae dallo stomaco del fachiro le preziose rubelliti; poscia Ciattanuga, affinché il dottore non abbia a parlare, gli pianta un bisturi nella collottola e cerca di mettere in difficoltà Ganascia lasciando un messaggio cifrato che, scritto alla maniera dei malavitosi, sembra indicare lui come responsabile dell’omicidio; più tardi farà rinvenire il cadavere sventrato di Pegus Baita presso l’imbarcadero con un altro messaggio in codice che getti ombra sull’altro scagnozzo del clan, il Tartaglia.
     “Bene, bene, bene… Adesso le rubelliti mi seguiranno alla centrale di polizia; vuole gentilmente passarmi il fagotto, Gropp?”, dissi non appena egli ebbe finito di enunciare i fatti.
     Il noleggiatore sembrava alquanto indeciso, forse valutava ancora una qualche possibilità di salvezza e continuava a stringere tra le tozze mani il sacchetto con le rubelliti. I suoi singulti di pianto erano invero penosi. Io però non avevo tempo da perdere: presi al volo il vaso di una begonia lì vicino, lo sollevai rapido in aria e lo lasciai ricadere pesantemente sul capoccione del Gropp: ecco, adesso mi sembrava davvero commosso; intendo riferirmi alla commozione cerebrale che gli avevo procurato. Caduto a terra come un sacco di concio, il Gropp dormiva ora sonni tranquilli e dava a me la possibilità di entrare finalmente in possesso di quelle dannate rubelliti; ad ogni modo, per evitare che una volta ridestato potesse avvertire subito quel lestofante del Ciattanuga, lo legai stretto con una fune che trovai lì nel capanno e gli infilai in bocca un grosso bulbo di begonia.
     Abbandonai il giardino del grassone e tornai su Via Kalimba de Luna; quando giunsi in strada, alla luce dei lampioni, vidi sull’asfalto bagnata la strisciata delle gomme della macchina di Ciattanuga: una frenata di parecchi metri… Ma, Santa Madonna! Quelle lunghe striature in realtà portavano diritte verso la mia Scaberwilly, parcheggiata con gusto e precisione lungo il marciapiede… Corsi presso la mia povera vettura e, quando vidi orrendamente rincalcata tutta la fiancata di manca, poco ci mancò che un mancamento mi facesse perdere i sensi. Dannato Ciattanuga! Ecco contro che cosa aveva urtato poco prima! Una ragione in più per assicurarlo alla giustizia, quell’imbroglione! Piansi a dirotto sul cofano della Scaberwilly per circa quaranta minuti (e pensare che nessuno mi pagava per quella maledetta indagine! Ah, come vivrei meglio in generale se non avessi dentro di me questo forte senso del giusto…). Affranto e sconsolato, decisi che era pur ora di tornare a casa.

(...continua...)


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