sabato 25 febbraio 2012

"Il confessionale" di Don Tapirone

Fedelissimi amici, è con somma letizia che giungo anch'io all'esordio sul web.
Presentazione in stile classico: sono Don Tapirone, beneamato parroco di Célleri.
Ci volevano proprio quegli scavezzacollo dei fratelli Giammai per convincermi ad esportare sulla rete la mia rubrica un tempo cartacea, "Il confessionale".
Pietro e Ferruccio, ragazzi... Pensare che li ho avuti entrambi bambinetti nelle sale ricreative della mia parrocchia (un po' meno tra le panche della chiesa, a dire il vero...). Li ricordo benissimo, due discoli che era un piacere castigare con tutta quella serie di amabili punizioni che un sacerdote della vecchia scuola sa ben distribuire: sequela infinita di preghiere a comando, rappresentazione teatrale obbligatoria delle parabole più noiose, scappellotti mirati, energiche passate di grattugia sotto le tenere piante dei piedi... Insomma, tutte queste cosine qui. Sempre nel nome del Signore misericordioso, ci mancherebbe altro.
Ma veniamo tosto alla condivisione di qualche riflessione che mi viene spontanea dopo aver ascoltato i racconti di voi fedeli presso il mio confessionale nella Chiesa di Célleri.
L'altro giorno mi arriva un tale che chiedeva perdono perché aveva tradito la moglie. Tra l'altro si tratta di Giorgio Fantini, l'edicolante (uh già, il segreto professionale... Va be', ormai...). Insomma il Fantini si è fatto a più riprese la sorella minore del Tinti, quel tipo alto che ha l'autorimessa sulla strada di Greppio.
"Mio buon Giorgio", gli ho detto. "Con chi avresti dunque tu fornicato? Con la Tinti più giovane? La Carlina? Quella con le poppe grosse?".
E il Fantini: "Sì, proprio lei, Don Tapirone. Son tanto pentito".
Eccola allora la riflessione: guardate quanto può la fede! Far sentire in difetto un pover'uomo solo perché ha copulato con passione, insistenza e anche (a giudicare dai particolari che mi ha riferito) grande vigore, diciamo... Eh, il potere della fede! Far provare pentimento ad un triste edicolante proprio per le uniche mezz'ore di svago che si è concesso da almeno vent'anni a questa parte; vent'anni altrimenti tetri e malinconici. E' corso subito in chiesa, il Fantini, hai capito? E' venuto da me che ancora, quasi si può dire, aveva i calzoni slacciati. Perché la vergogna per quell'ignominioso tradimento lo mortificava nel profondo dell'animo. Lo faceva sentire come Adamo dopo aver mangiato il frutto proibito.
Guarda, mi dicevo, quanta fede c'è in quest'uomo, quanta fede c'è in questo Fantini. Una fede enorme. Enorme almeno quanto le poppe della Carlina Tinti, giudicando così un po' a occhio.
Ho visto quest'edicolante veramente prostrato dal dolore. Singhiozzava, il poveretto, mentre diceva: "Mia moglie non lo meritava, non lo meritava... Quella santa donna, timorata di Dio, non lo meritava".
A quel punto, riconoscendo in lui la fede sincera del peccatore pentito, mi è sembrato giusto intervenire: "Giorgio! Giorgio! Ma quale santa donna? Timorata di Dio un cazzo, se mi permetti! E che diamine, io non posso tacere oltre". E lì di getto gli ho raccontato di tutte le volte che quella "santa donna" di sua moglie, la Iole, è venuta a confessare ogni sua scopatel... ehm, volevo dire... scappatella.
Vi assicuro che il Fantini, quando è uscito dalla parrocchia, si sentiva già meno in colpa. Almeno credo, perché più che saperlo posso solamente intuirlo: sì, stranamente a quel punto il Fantini ha lasciato la chiesa in grande fretta senza darmi nemmeno il tempo di una degna assoluzione. E' corso via masticando qualche strana preghiera, credo. Perlomeno una di quelle che a me non insegnarono al Seminario. 
Ecco il premio della fede, amici. Il Signore, che tutto vede e tutto sa, ha compreso quanto veritiero fosse il pentimento del buon Fantini e dunque - per bocca di uno dei suoi umili servitori, in questo caso il sottoscritto beneamato Don Tapirone - ha voluto subito sollevarlo dal grande senso di colpa che egli provava (ingiustamente!) nei confronti della moglie Iole. Il Signore è veramente bravo, non c'è nulla da fare.
Lode al Signore.

mercoledì 1 febbraio 2012

ZINGO n° 3 "Grosso guaio a Giudatown" (7a e ultima parte)

(...segue...)

     Per buona parte della giornata seguente rimasi chiuso in casa, senza mai rispondere al telefono; l’unica sortita la feci sul mezzodì per accaparrarmi una copia del Gazzettino di Giudatown presso l’edicola in fondo a Via Gospel. Naturalmente nelle pagine della cronaca campeggiava a otto colonne il titolo “Maxi-sparatoria tra gangster rivali al Molo di Frombole: due morti e due feriti”. Rincasai celere e lessi attentamente l’articolo. Venni dunque a sapere che nel prosieguo di quella drammatica sfida balistica della notte precedente, la Capitaneria di Porto, allertata dal gran baccano che io stesso avevo contribuito a provocare, era dovuta intervenire con una delle proprie navette. Dopo un’avvincente sparatoria, i Gendarmi Portuali erano riusciti ad avere la meglio su alcuni dei malavitosi coinvolti, speronando un’imbarcazione (addirittura munita di cannoncino) di contrabbandieri e costringendoli alla resa; dopo aver ammanettato i cinque marinai (di cui due feriti in modo serio), la navetta della Capitaneria aveva attraccato e i Gendarmi Portuali avevano recuperato lungo la darsena i cadaveri di due noti pregiudicati, periti (secondo i periti della scientifica) nello scontro a fuoco: trattavasi di due appartenenti alla ganga di Vanv che rispondevano ai nomi di Otto Lebovitz detto ‘il Picciotto’ e di Joey Fettunta detto ‘il Piccione’.
     “Bene”, esultai levando al cielo il giornale, “ho preso due piccioni con una fava; anzi con una fava ho preso un piccione e un picciotto, eh, eh, eh…”. “E dunque”, mi sarebbe piaciuto chiedere adesso ai due vanveri se solo fosse stato possibile: “Era davvero valsa la pena mettersi in affari con Fausto Kazz? Sì”, risposi io per loro, “ne era valsa la pena. La pena di morte, però... eh, eh, eh...”.
     Proseguendo nella lettura dell’articolo, raccolsi altre informazioni: la presenza di bossoli di varia natura faceva pensare che nella sparatoria fossero coinvolti molti più pistoleri; la polizia, che – specificava maliziosamente l’autore del pezzo – brancolava nel buio, tendeva comunque a parlare di un normale regolamento di conti tra bande rivali di malavitosi; tutto, a detta dei poliziotti, era da ricondursi al commercio clandestino di liquore: nella barca dei contrabbandieri era stato infatti rinvenuto un quantitativo esorbitante di bottiglie di rum contraffatte, con etichette e turaccioli fallaci; si diceva infine che tutto il liquore era stato sequestrato e portato in centrale per accertamenti. A me pareva semmai, a giudicare da quelle superficiali ricostruzioni della polizia, che il rum fosse stato sì sequestrato e portato in centrale, ma anche ivi scolato in allegria.
     Tuttavia, nonostante l’eliminazione di due pericolosi avversari, quelle rubelliti continuavano a scottare maledettamente nelle le mie mani; dovevo al più presto sbarazzarmene. Consegnarle alla polizia? No, troppe spiegazioni da dover dare (e l’Ispettore Ottanio neppure le avrebbe capite...). Buttarle a mare? Che peccato! Rilucevano in una maniera talmente invitante... E poi, in quel modo non mi sarei mai affrancato dalla vendicativa voracità del clan degli Abbatecola. Avevo sollevato un polverone e stava a me ora risistemare tutto per il suo verso. Se volevo evitare ritorsioni (o torsioni, magari del collo!), mi restava un’unica possibilità: abbandonare quelle velleità di giustiziere che fin lì mi avevano animato e, con la coda tra le gambe, riportare le rubelliti ai loro vecchi possessori; solo così, potevo sperare di farla franca. A malincuore dovevo riconsegnare il malloppo a Ganascia e Tartaglia. Di certo non al Ciattanuga... Anzi, se giocavo bene le mie carte, potevo farmi bello agli occhi dei primi due svelando loro che il ‘collega’ Les li aveva bellamente traditi e turlupinati. Sì, perdiana, questa era la soluzione migliore. Così sì che avrei salvato il cul... sì, insomma... le natiche, via! Piuttosto, come fare? Non avevo molto tempo a disposizione: schiere di sicari potevano già essere sulle mie tracce, qualunque fosse l’identità attribuitami (Dino Zingo, Fausto Kazz, un portaborse di Peter Fauna, un leccapiedi della mafia di Burgos, un doppiogiochista di Vanv oppure ancora un coglionazzo che passava di lì...). Scartai l’idea di consegnare le rubelliti direttamente nelle mani di Ganascia e Tartaglia. Sarebbe stato come andare al macello. No, mi serviva qualcuno che potesse fungere da fattorino... Vi ragionai su per almeno tre ore, poi il lampo di genio. Arraffai la copia del Gazzettino che avevo poco prima letto e la sfogliai fino alla pagina degli spettacoli; curiosai tra le attrazioni serali del quartiere dell’Old Begallus alla ricerca del posto in cui si sarebbe esibita Eva Margutte, la più troia di tutte. Non ci misi molto a trovare il richiamo di un locale denominato Bar Gioni, ubicato in Via Culo: “Stasera lasciate a casa le vostre mogli brutte. Venite al Bar Gioni: c’è Eva Margutte!! Alle 23 l’attesa sarà grande: l’Eva si leverà le mutande!!”. Mm… molto interessante… Questo Bar Gioni ci sapeva fare con i clienti…
     Presentarmi dalla Margutte in un clima tanto infuocato era operazione piuttosto rischiosa: di certo non volevo si verificassero inconvenienti come la prima volta al Bar Abba dove l’avevo scampata soltanto per un pelo. Oltretutto in quella parte della città mi ero pregiudicato il rapporto con molti pregiudicati; la mia faccia cominciava ad essere maledettamente conosciuta negli angoli più malfamati dell’Old Begallus. Optai così per un travestimento. Ebbene sì, mi sarei presentato ad Eva sotto le sembianze di... sua sorella: camuffamento ambizioso, lo riconosco, ma l’unico che ritenni plausibile per avvicinarla in quel momento particolarmente delicato. Era dunque il momento di aprire la valigia del trasformista. Tenevo da sempre nel ripostiglio di casa un vecchio baule con tutto ciò che poteva tornare utile ai miei mascheramenti durante le indagini più spericolate. Il baule era come al solito fornitissimo: intanto giudicai che una vecchia parruccona rosso mogano di zia Guendalina facesse davvero al caso mio. Dopo averla calzata, dovetti ammettere che mi donava tantissimo… Un trucco pesante, una camicetta rossa, gonna a tubino nera, calze nere e un paio di scarpette rosse con tacchi a spillo (sono bravissimo a camminarci) completavano magnificamente l’opera. Andai poi al frigorifero, presi un cocomero, lo divisi in due metà esatte per poi foderarne ciascheduna con un morbido panno di cotone; infine, con un sistema di molle e tiranti realizzai un’imbracatura artigianale che mi sistemai all’altezza del torace con la funzione specifica di reggiseno; quivi disposi le due metà del cocomero per ottenere una sesta taglia invero invidiabile. Ora ero dunque pronto per quel tète à tète (o ‘tetta a tetta’, se preferite) con la Margutte. Insomma: se sorelle dovevamo essere, in qualcosa dovevo pur somigliarle. Rimaneva semmai l’inghippo (non indifferente, per una donna) dei miei baffetti; mai avrei potuto tagliarli per una ‘carnascialata’ qualsiasi… Dopo attimi di grande cogitazione decisi per uno spesso foulard nero da tenere avvolto fin sotto il naso e con cui sarebbe stato piuttosto facile celare quell’inopportuna peluria.
     Misi infine le rubelliti in una trousse di strass che avevo vinto in una fiera di beneficenza e di cui mi vergognavo assai (l’occasione buona per liberarmene, insomma), ci rovesciai dentro le rubelliti e mi ritenni pronto per uscire.

     Per una maggiore sicurezza avevo parcheggiato la Scaberwilly ben lontano dal bar dove ero diretto; così, nel lungo tragitto che dovetti compiere a piedi, sculettai un po’ per il quartiere anche per prendere confidenza con le mie nuove fattezze; fortuna che il fortunale costrinse molti a starsene a casa tanto che le strade erano buie e solitarie. Erano passate da poco le 22 quando raggiunsi Via Culo e una squallida insegna al neon m’indicò il Bar Gioni.
     “Cosa prendi, bella pupa?”, mi chiese appena fui vicino al bancone un cameriere che scuoteva a tutto braccio uno shaker.
     Mi coprii ancor più con il foulard e attaccai con la voce in falsetto: “Niente, grazie. Sono la sorella di Eva Margutte; avrei bisogno di parlarle. Posso raggiungerla in camerino?”.
     Il cameriere mi guardò bramoso: “Ma certo! Vieni che ti ci accompagno io”. E indicandomi un corridoio laterale, fece l’atto di farmi passare per primo. Quanta galanteria, pensai tra me e me; altro che il Clancy del Bar Abba! Come non detto: appena il tempo di fare un paio di metri e quel maiale mi dette una sostanziosa palpata sul sedere. La mia voce uscì stavolta al naturale: “Oh cretino!”.
     “Ehi, ma qui abbiamo un ‘donnino’ tutto pepe, eh? Mi piacciono le tipe toste e mascoline… ed anche quelle con due belle chiappe sode come le tue”. E sì che lavorava in Via Culo!
     Per il bene dell’indagine dovetti sopportare le sfrontate avances del sudicione ma garantisco che non fu per niente facile: mi sentii veramente umiliato nella mia intima essenza di donna. Inghiottii dunque a fatica, mi riappropriai del falsetto e tornai ad interpretare la sorella della Margutte.
     Giunti alla porta del camerino, prima di bussare il gentleman s’informò circa le mie generalità: “Com’è che ti chiami, chiappona?”.
     Studiai un nome che potesse aiutare Eva a rammentarsi di me: “Mi chiamo Zinga”.
     Il cameriere bussò: “Eva, c’è qua tua sorella Zinga”.
     Da dentro risuonò la suadente voce della Margutte: “Sorella??? Ma che dici, Nando? Io non ho sorel… Aspetta: come hai detto? Zinga?”. Aprì immediatamente la porta e non appena mi vide, riconoscendomi pur paludato com’ero, non seppe trattenere una rumorosa risata. “Zinga! Sorellina cara!”, mi fece poi gettandomi le braccia al collo e trascinandomi all’interno del camerino.
     Appena ebbe chiuso la porta, Eva prese a ridere a crepapelle tanto che prima di ricomporsi passarono diversi minuti.
     Riuscii ad interrompere il suo sollazzo soltanto quando presi a farle qualche domanda di circostanza: “Dunque: la vostra attività procede che è una meraviglia. Anche stasera avete fatto il pienone”.
     “Sì, ho il mio pubblico di fedeli affezionati”, disse sorridendo.
     “Salirete sul palco tra poco?”.
     “Una mezz’ora”.
     “E ditemi, via: quale abito di scena indosserete stasera?”, domandai tanto per creare ulteriore familiarità.
     “Mm... stasera indosserò...”, fece guardandosi un po’ attorno quasi ancora dovesse sceglierlo. “Mm... indosserò quello”.
     Mi indicò una sedia vuota.
     E io un po’ tontamente: “Ma come? Ma lì non vedo null...”. Appunto.
     La sua spontanea risata mi chiarì la facile allusione.
     Nessuna distrazione, mi dissi. Dovevo rimanere concentrato sui motivi per cui ero lì. Certo che, proprio a questo proposito... Insomma, qualche dubbio sulla scelta di rimettermi nelle mani della Margutte... Voglio dire, era pur sempre la donna di un mafioso... Una semplice spogliarellista... Era veramente affidabile? Anche il fatto di averla lasciata al Bar Abba commossa per la morte dell’amico Pegus Baita e vederla ora allegra e spensierata, a distanza di così poco tempo, in effetti mi fece dubitare circa la sua sensibilità d’animo (d’altronde  il dorato mondo dello spettacolo è in realtà – le signore mi perdoneranno – un dorato mondo di merda). Avrebbe la Margutte compreso fino in fondo la delicatezza dell’incarico che le commissionavo? Comunque, che avessi fatto bene o meno, ormai a lei avevo deciso di affidare sia le rubelliti della contesa sia un messaggio importantissimo che avrebbe potuto salvarmi la vita: dovevo spiegarle tutto con puntiglio e poi incrociare le dita.
     Le raccontai gli avvenimenti dall’inizio alla fine. Forse esagerai un po’ troppo a calcare la mano quando sottolineai le modalità dell’omicidio del Baita e del successivo sbudellamento del suo cadavere ad opera del dottor Latimer. Eva si contrasse subito e gli occhi le si inumidirono: “Oh mio Dio, povero Pegus! Che fine orribile! Se solo si fosse confidato con me, magari l’avrei messo in guardia da certe frequentazioni...”.
     Era già tornata l’adorabile Margutte capace di esternare i suoi grandi sentimenti; tuttavia non era il momento dei rimorsi: “E’ inutile battersi il petto, Eva. Oltretutto nel suo caso occorrerebbe il permesso dei Beni Culturali. Pegus se n’è ito nel modo più penoso ma ci lascia un’eredità pesante: pesante due chili, all’incirca. Due bei chili di rubelliti. Bada qui!”. E tirai fuori la trousse di strass. Eva si asciugò gli occhi per rifarseli subito dopo: le pupille le si dilatarono per la maraviglia non appena le mostrai le luccicanti gemme.
     “Dio, sono bellissime!”. E subito appresso: “Ne posso tenere una? Dài, Dino, per favore!”.
     Visto che richiusi la trousse mostrandomi riluttante a soddisfarne la cupidigia, la diabolica Eva sfoderò tutta la sua consumata arte e si allargò un po’ la veste. Era già tornata l’adorabile Margutte capace di esternare le sue grandi mammelle. Poi mi fece con voce sensuale e intrigante: “E dài, Dino! Perché vuoi fare il cattivo con la tua sorellina?”. Con una mano aprì un altro bel po’ di veste: devo dedurre avesse una caldana improvvisa. 
     “Eva, già l’indagine è stata molto difficile; se poi voi fate così, io proprio non riesco più a raccapezzolarmi... Ehm... a raccapezzarmi, ecco!”.
    Mi era sempre più vicina: giuro che la caldana a quel punto ce l’avevo io, tanto che il trucco con cui mi ero abbellito rischiava di colarmi lungo il viso. La Margutte ora mi carezzava il collo bisbigliandomi melliflua all’orecchio: “Dài, Dino, solo una gemmetta... Che ti costa? Io poi so essere riconoscente, sai?”.
     Non resistetti oltre: riaprii la trousse, intuffai la mano nelle rubelliti, ne presi cinque in una manciata e gliele consegnai; operazione che feci tutta d’un fiato, invitando poi la più troia di tutte a nascondere immantinente quelle costosissime gemme in qualche posto sicuro. La Margutte, al colmo della gioia, infilò le rubelliti in un astuccio che rimpiattò all’istante e poi si ricompose subito chiudendo nuovamente la veste (ecco la riconoscenza di cui era capace la donna di Santapace!).
     In fin dei conti meglio così; ero lì per uno scopo preciso. L’infallibile investigatore privato che sono diventato, il professionista irreprensibile che mi fregio d’essere, giammai si sarebbe prestato alla smaniosa vogliosità di una entreneuse. Ma per chi mi avete preso? Ma figuriamoci! Ma che si scherza davvero? Ma che siete grulli?
     Piuttosto, riacquistata lucidità, dettagliai al massimo le mie istruzioni circa la restituzione del bottino. Infine precisai: “Mi raccomando, Eva: non fate assolutamente il mio vero nome. Dino Zingo per la mala non deve esistere. Dite piuttosto a Fred che a recuperare le rubelliti è stato il grande Fausto Kazz. E’ importantissimo che non vi confondiate: Fausto Kazz. E’ chiaro? Via, un cognome come questo voi lo dovreste ricordare...”.
     Intanto nella sala principale del locale montava la trepidazione di coloro che erano venuti a vedere l’esibizione della Margutte tanto che anche dal camerino si cominciò a sentirne risuonare sempre più alte le volgari urla. Erano un branco di invasati.
     Ebbi una reazione impulsiva: “Ma insomma, come fate? Non siete stanca di questa vita, Eva? Sbattersi tutte le sere in questi ambienti infimi; questo Bar Gioni poi... Non mi fate dir niente, via...”.
     “E’ il mio lavoro, Dino. Lo faccio da sempre”, fece lei candidamente.
     “Tutte le sere vi esponete al rischio che qualcuno degli avventori letteralmente... vi si avventi contro. In questi posti ci ho visto di tutto: mafiosi, briachi, drogati, puttanieri, magnaccia; e voi, permettetemi, vi concedete loro con troppa serenità”.
     “Ma tanto io ho il mio Fred”.
     Un morso di gelosia mi pizzicò il fondoschiena tanto che scattai d’istinto: “Ma si può sapere che cosa diavolo ci trovate in quel gangster di strada?”.
     “E’ così sexy! E poi è gentile, attento nei miei confronti... Mi usa talmente tante carinerie... Per esempio è così premuroso quando la sera, prima di andare a letto, si sfila la pistola e la posa sul comodino. E’ così protettivo”. La vidi illanguidirsi al solo pensiero... Mah! Ero convinto che a certe tipe piuttosto che la pistola sul comodino interessasse di più il bazooka sotto le coperte ma, è cosa nota, io di donne non capisco nulla; delle donne so soltanto che cominciano per ‘d’.
     Volli fare l’ultimo tentativo di redenzione: “Ma quale protezione vi può garantire un fuorilegge che ha mille faccende al dì da sistemare! Un fuorilegge che vi trascura al mattino perché magari è impegnato a svaligiare una ricevitoria, che non vi sta mai vicino durante il pomeriggio perché magari ha da piazzare una partita di droga o una bomba, che non torna a casa la sera perché magari ha da scortare Ninetto Abbatecola a qualche bisca del quartiere. Via, Eva! Sennò davvero...”. Mi parve un’arringa ben articolata.
     Ma l’Eva mi gelò subito: “Non è vero, Dino. Fred non mi trascura affatto. Per esempio tutte le sere viene a vedere i miei spettacoli e ad accertarsi che nessuno mi voglia esprimere il suo... entusiastico gradimento mentre mi esibisco”.
     “Come ‘tutte le sere’?”, chiesi ansioso.
     “Certamente. Perché? Anzi”, disse poi dando un’occhiata all’orologio sul tavolino del camerino, “dovrebbe già essere qui”.
     Trasalii. Scattai verso la porta, la aprii e guardai lungo il corridoio: Santa Madonna! Il gangster, col suo inappuntabile abito di velluto bordeuax, era appena arrivato: al bancone Nando gli stava versando da bere e pareva intrattenerlo con qualche chiacchiera di benvenuto.
     Richiusi la porta imprecando: “Ma puttana Eva!”.
     “Ehi!”, si accigliò la Margutte.
     “No, scusatemi, niente di personale... Il vostro Fred è appena entrato nel locale... Devo tagliare la corda istantaneamente. C’è un’uscita secondaria?”.
     “No, che io sappia. Però nel bagno delle donne, in fondo al corridoio, c’è una finestra che dà sulla strada...”, rispose lei sinceramente preoccupata per la mia incolumità.
     “Bene, proverò per quella via”. Riaprii la porta del camerino per creare uno spiraglio da cui osservare i movimenti nel corridoio: adesso, a giudicare dai gesti delle mani, Nando mi stava descrivendo mimando all’elegante gangster la portata delle mie tette e magnificandone la compattezza; ebbi appena il tempo di un rapido saluto a... mia sorella e un richiamo alle cose importanti che doveva ricordarsi di riferire, poi dovetti uscire in fretta dal camerino. Appena fui nel corridoio ecco venirmi incontro, spietato come un rapace, Fred Santapace. Per fortuna fui lesto a sgattaiolare nella direzione opposta da dove egli proveniva; vidi poi la porta della toilette per signore: ci infilai dentro con foga chiudendomi dentro uno dei bagni.
     Il fiatone non m’impediva di focalizzare il da farsi. Dunque: verosimilmente proprio in quell’attimo Santapace stava investendo Eva con una sequela di domande circa la visita della fantomatica sorella di cui era stato senza dubbio informato da quel beota di Nando: ma alla spogliarellista avevo lasciato l’asso nella manica per sottrarsi all’interrogatorio del suo Fred; infatti non appena ella gli avesse consegnato la trousse con le rubelliti e gli avesse spiegato che in realtà sua sorella non esisteva affatto ma che sotto quelle seducenti spoglie si nascondeva Fausto Kazz, improvvisato collaboratore del clan degli Abbatecola, Santapace – ne ero convinto – avrebbe trovato sufficienti tali giustificazioni. Tuttavia l’idea di rimanere in quello stabile non mi piaceva: con quella feccia non v’era da scherzare. Probabilmente la confidenza che avevo raggiunto con la Margutte non avrebbe disturbato l’affarismo del gangster Santapace, ma avrebbe senz’altro messo sul chi va là la gelosia dell’uomo Fred. Decisi che era meglio svignarsela: la finestrella del bagno, aperta in alto appena di lato al serbatoio dello sciacquone era piuttosto stretta ma un felino come il sottoscritto poteva farcela senza troppo penare. Montando in piedi su un termosifone riuscii facilmente ad affacciarmi alla finestrella; bene, sotto c’era una piccola strada secondaria per niente frequentata e il salto non sarebbe stato disagevole. Con la forza delle braccia m’issai facendo uscire le spalle dalla finestra e mi apprestavo a far scivolare all’esterno il resto del mio corpo quando, ohibò, non avevo fatto i conti con la mia recente trasformazione fisica. Nonostante mettessi tutto il mio impegno, non riuscivo a cavarmi dall’apertura. Anzi, avevo finito per incastrarmi negli infissi per via delle due angurie. Chi aveva progettato una finestrella tanto stretta? Fosse stato per me quel Bar Gioni avrebbe chiuso bottega il giorno dopo!
     La situazione peggiorò di lì a poco, quando sentii armeggiare alla serratura del bagno. Neppure ebbi il tempo di gridare “occupato” che qualcuno era già entrato nella toilette, usando con tutta probabilità un passepartout. Era il temibile Nando; sentii la sua voce mostrare subito un sinistro grado di eccitazione: “Mmm... Ecco dov’era andata a cacciarsi la cara sorellina Zinga... Mmm, bella maialona...”. Senza neppure chiedersi perché mi stessi spenzolando fuori dalla finestra (manco fosse una bella serata estiva), il porco affondò le mani sulle mie chiappe e prese a palpeggiarle con mostruosa avidità.
     Santa Madonna! Quel bruto stava abusando delle mie grazie (e pensare che nessuno mi pagava per quella maledetta indagine! Ah, come vivrei meglio in generale se non avessi dentro di me questo forte senso del giusto)! Mulinai le gambe con furia cieca nello sforzo tipico del pistard controvento. Incocciai subito violentemente contro il mio aggressore: i miei tacchi a spillo, a giudicare dall’urlo di dolore e dalla sfilza di fitti bestemmioni che Nando mandò, dovettero coglierlo in un punto di vitale importanza. Fu senz’altro per la paura di rimanere ghermita di nuovo dalle mani del cameriere che, nel divincolarmi, finii per compiere un movimento che mi permise finalmente di liberarmi dall’incastro della finestrella: non appena riuscii a cacciare fuori le mie angurie, il loro peso era tale per cui caddi giù di sotto per semplice forza di gravità; picchiai una considerevole romba sull’asfalto di Via Gulliver, silenziosa traversa di Via Culo. Ma una volta in piedi, non stetti lì a controllare gli acciacchi: tolsi le scarpette con i tacchi, mi avvolsi ancor più nel mio foulard nero per ripararmi dal vento e dalla pioggia sferzante e, scalza e bellissima, corsi via a perdifiato nella direzione dove avevo lasciato la macchina (si parla, ahimé, di qualche chilometro).
     A quell’ora fortunatamente le strade erano deserte. Le uniche persone che incontrai sotto quel temporale furono tre balordi che stazionavano al riparo di un cornicione in forte aggetto all’altezza di Vicolo Barzottoni. Uno del terzetto mi lanciò un commento ammirato: “Guarda che poponi ha quella!”. “Sono cocomeri, per tua informazione”, gli feci con la mia voce naturale correndo via al galoppo. A quel punto il tale, dopo un attimo di smarrimento, mi urlò: “Ma vergognati, pervertito!”.

     Come volevasi dimostrare: l’indomani l’edizione del mezzodì del Gazzettino di Giudatown confermava quanto spietata fosse la malavita della città. Uno degli articoli della cronaca titolava infatti: “Nuovo delitto nell’Old Begallus – Assassinato il gangster Les Ciattanuga – Incredibile: la polizia brancola nel buio”. Lessi avidamente il resoconto: il Ciattanuga era stato fatto fuori la notte appena trascorsa; qualcuno gli aveva sparato un colpo in fronte; il corpo era stato trovato all’alba da un panettiere in un vicolo non lontano dal Bar Abba; curiosamente accanto al cadavere era stato rinvenuto un 45 giri, ‘Ci garba, ci garba’, un vecchio disco dei Capitan Jarba, su cui l’assassino aveva scritto a penna “COSTUI HA PERSO LA TESTA PER IL ROCK AND ROLL”. Sorrisi amaro. Mentre il giornalista seguitava col dire che l’Ispettore Ottanio si diceva convinto dell’esistenza di un serial killer che lasciava messaggi irrisori vicino alle sue vittime, io avevo già capito tutto. Quei due diavoli di Ganascia e Tartaglia non avevano perso tempo; la soffiata che avevo fatto pervenire loro tramite Eva (e quindi attraverso il Santapace) gli era bastata per decretare la fine del compare traditore; nel breve giro di qualche ora lo avevano già eliminato e poi avevano inteso addirittura rendergli la pariglia, ovvero ‘firmare’ il delitto a mo’ di depistaggio proprio come aveva fatto il Ciattanuga a danno loro; in più col messaggio sembrava volessero addossare la colpa dell’omicidio al loro rivale storico. ROCK AND ROLL”, avevano scritto. Eh, eh, vecchie canaglie… A chi altri potevano riferirsi se non a ROCCO ROLLER? Quella laida faida tra famiglie di malaffare non avrebbe mai avuto fine. Feci bene a non addentrarmici più di tanto. Intanto l’Ispettore Ottanio stava continuando a spremere quello che secondo lui era il principale sospetto dell’omicidio di Pegus Baita: si trattava, pensate un po’, di quel povero vecchio con l’ombrello con cui mi ero riparato in Via Spruce la sera dell’agguato dei due sgherri di Vanv e che io stesso avevo consegnato alla Gendarmeria pur di liberarmene in fretta; l’ispettore, cocciuto al pari di un picchio, era convinto che quell’ometto, oltre a sfasciare il negozio di grancasse di Art Gropp, avesse prima eliminato il fachiro e dunque seguitava a tormentarlo con la linea dura degli interrogatori più asfissianti; oltretutto l’atteggiamento ribelle e minaccioso del vecchio non deponeva a suo favore. Be’, che dire? Mi dispiaceva ma era troppo importante che la polizia non si orientasse mai bene in quella indagine. Ancor più: era una vera fortuna che l’Ispettore Ottanio avesse un incarico tanto importante in questura.
     Da par mio, dovessi adesso dare un giudizio a freddo su quella vicenda, posso dire che in fin dei conti m’inorgoglisce alquanto l’aver messo un bel po’ di pepe al culo ad alcune delle cosche più losche della città anche se alla fine avevo dovuto rinunciare a vedere dietro le sbarre tutti i responsabili dei delitti che erano stati commessi in quei funesti giorni. Avevo fatto tutto per amore della giustizia e per grande coscienza civica. E pensare che nessuno mi pagava per quella maledetta indagine! Ah, come vivrei meglio in generale se non avessi dentro di me questo forte senso del giust… Ah già, forse questo non lo posso più dire... In effetti non ve l’ho raccontata tutta.
     La sera in cui mi travestii da Zinga Margutte, affascinante sorella di Eva, vi ho detto che sistemai tutte le rubelliti nella trousse di strass. Be’, ecco... Non proprio tutte, via... Il fatto è che quelle gemme rilucevano in maniera troppo allettante, dannazione! Insomma, avevo per le mani un’autentica fortuna: con l’intero bottino potevo sistemare almeno tre generazioni di futuri Zingo. Ma, mi dissi, come potrei un domani guardare in faccia i miei figli se commettessi un reato odioso come quello dell’appropriazione indebita? Risolsi così il dilemma: decisi semplicemente che non avrei avuto figli. In questo modo non avrei mai dovuto guardarli in faccia e dare loro delle spiegazioni. Pertanto arrivai a un compromesso: restituii tutte le rubelliti, ma ne tenni una cinquina di quelle più piccole, che per le loro dimensioni tanto minute mi facevano quasi tenerezza (che dite? E’ una giustificazione credibile?). Sì, mi dissi, che vuoi che sia? Sono giusto delle scheggettine... delle pietruzze insignificanti... Quasi non si vedono... Via, al cospetto delle altre scomparirebbero... Insomma, non possono stare con loro… Quando poi le andai a rivendere però, devo dire invece che quegli umili ‘sassolini’ seppero comunque farsi valere e mi aiutarono a rifare la fiancata sinistra della Scaberwilly che il Ciattanuga mi aveva sfondato, a spassarmela per una vacanzina al mare di circa una settimana e a comprarmi la cucina nuova. Tutto fatto in omaggio alla memoria di Pegus Baita, ovviamente. Ci mancherebbe!

(fine dell'episodio)