sabato 25 febbraio 2012

"Il confessionale" di Don Tapirone

Fedelissimi amici, è con somma letizia che giungo anch'io all'esordio sul web.
Presentazione in stile classico: sono Don Tapirone, beneamato parroco di Célleri.
Ci volevano proprio quegli scavezzacollo dei fratelli Giammai per convincermi ad esportare sulla rete la mia rubrica un tempo cartacea, "Il confessionale".
Pietro e Ferruccio, ragazzi... Pensare che li ho avuti entrambi bambinetti nelle sale ricreative della mia parrocchia (un po' meno tra le panche della chiesa, a dire il vero...). Li ricordo benissimo, due discoli che era un piacere castigare con tutta quella serie di amabili punizioni che un sacerdote della vecchia scuola sa ben distribuire: sequela infinita di preghiere a comando, rappresentazione teatrale obbligatoria delle parabole più noiose, scappellotti mirati, energiche passate di grattugia sotto le tenere piante dei piedi... Insomma, tutte queste cosine qui. Sempre nel nome del Signore misericordioso, ci mancherebbe altro.
Ma veniamo tosto alla condivisione di qualche riflessione che mi viene spontanea dopo aver ascoltato i racconti di voi fedeli presso il mio confessionale nella Chiesa di Célleri.
L'altro giorno mi arriva un tale che chiedeva perdono perché aveva tradito la moglie. Tra l'altro si tratta di Giorgio Fantini, l'edicolante (uh già, il segreto professionale... Va be', ormai...). Insomma il Fantini si è fatto a più riprese la sorella minore del Tinti, quel tipo alto che ha l'autorimessa sulla strada di Greppio.
"Mio buon Giorgio", gli ho detto. "Con chi avresti dunque tu fornicato? Con la Tinti più giovane? La Carlina? Quella con le poppe grosse?".
E il Fantini: "Sì, proprio lei, Don Tapirone. Son tanto pentito".
Eccola allora la riflessione: guardate quanto può la fede! Far sentire in difetto un pover'uomo solo perché ha copulato con passione, insistenza e anche (a giudicare dai particolari che mi ha riferito) grande vigore, diciamo... Eh, il potere della fede! Far provare pentimento ad un triste edicolante proprio per le uniche mezz'ore di svago che si è concesso da almeno vent'anni a questa parte; vent'anni altrimenti tetri e malinconici. E' corso subito in chiesa, il Fantini, hai capito? E' venuto da me che ancora, quasi si può dire, aveva i calzoni slacciati. Perché la vergogna per quell'ignominioso tradimento lo mortificava nel profondo dell'animo. Lo faceva sentire come Adamo dopo aver mangiato il frutto proibito.
Guarda, mi dicevo, quanta fede c'è in quest'uomo, quanta fede c'è in questo Fantini. Una fede enorme. Enorme almeno quanto le poppe della Carlina Tinti, giudicando così un po' a occhio.
Ho visto quest'edicolante veramente prostrato dal dolore. Singhiozzava, il poveretto, mentre diceva: "Mia moglie non lo meritava, non lo meritava... Quella santa donna, timorata di Dio, non lo meritava".
A quel punto, riconoscendo in lui la fede sincera del peccatore pentito, mi è sembrato giusto intervenire: "Giorgio! Giorgio! Ma quale santa donna? Timorata di Dio un cazzo, se mi permetti! E che diamine, io non posso tacere oltre". E lì di getto gli ho raccontato di tutte le volte che quella "santa donna" di sua moglie, la Iole, è venuta a confessare ogni sua scopatel... ehm, volevo dire... scappatella.
Vi assicuro che il Fantini, quando è uscito dalla parrocchia, si sentiva già meno in colpa. Almeno credo, perché più che saperlo posso solamente intuirlo: sì, stranamente a quel punto il Fantini ha lasciato la chiesa in grande fretta senza darmi nemmeno il tempo di una degna assoluzione. E' corso via masticando qualche strana preghiera, credo. Perlomeno una di quelle che a me non insegnarono al Seminario. 
Ecco il premio della fede, amici. Il Signore, che tutto vede e tutto sa, ha compreso quanto veritiero fosse il pentimento del buon Fantini e dunque - per bocca di uno dei suoi umili servitori, in questo caso il sottoscritto beneamato Don Tapirone - ha voluto subito sollevarlo dal grande senso di colpa che egli provava (ingiustamente!) nei confronti della moglie Iole. Il Signore è veramente bravo, non c'è nulla da fare.
Lode al Signore.

mercoledì 1 febbraio 2012

ZINGO n° 3 "Grosso guaio a Giudatown" (7a e ultima parte)

(...segue...)

     Per buona parte della giornata seguente rimasi chiuso in casa, senza mai rispondere al telefono; l’unica sortita la feci sul mezzodì per accaparrarmi una copia del Gazzettino di Giudatown presso l’edicola in fondo a Via Gospel. Naturalmente nelle pagine della cronaca campeggiava a otto colonne il titolo “Maxi-sparatoria tra gangster rivali al Molo di Frombole: due morti e due feriti”. Rincasai celere e lessi attentamente l’articolo. Venni dunque a sapere che nel prosieguo di quella drammatica sfida balistica della notte precedente, la Capitaneria di Porto, allertata dal gran baccano che io stesso avevo contribuito a provocare, era dovuta intervenire con una delle proprie navette. Dopo un’avvincente sparatoria, i Gendarmi Portuali erano riusciti ad avere la meglio su alcuni dei malavitosi coinvolti, speronando un’imbarcazione (addirittura munita di cannoncino) di contrabbandieri e costringendoli alla resa; dopo aver ammanettato i cinque marinai (di cui due feriti in modo serio), la navetta della Capitaneria aveva attraccato e i Gendarmi Portuali avevano recuperato lungo la darsena i cadaveri di due noti pregiudicati, periti (secondo i periti della scientifica) nello scontro a fuoco: trattavasi di due appartenenti alla ganga di Vanv che rispondevano ai nomi di Otto Lebovitz detto ‘il Picciotto’ e di Joey Fettunta detto ‘il Piccione’.
     “Bene”, esultai levando al cielo il giornale, “ho preso due piccioni con una fava; anzi con una fava ho preso un piccione e un picciotto, eh, eh, eh…”. “E dunque”, mi sarebbe piaciuto chiedere adesso ai due vanveri se solo fosse stato possibile: “Era davvero valsa la pena mettersi in affari con Fausto Kazz? Sì”, risposi io per loro, “ne era valsa la pena. La pena di morte, però... eh, eh, eh...”.
     Proseguendo nella lettura dell’articolo, raccolsi altre informazioni: la presenza di bossoli di varia natura faceva pensare che nella sparatoria fossero coinvolti molti più pistoleri; la polizia, che – specificava maliziosamente l’autore del pezzo – brancolava nel buio, tendeva comunque a parlare di un normale regolamento di conti tra bande rivali di malavitosi; tutto, a detta dei poliziotti, era da ricondursi al commercio clandestino di liquore: nella barca dei contrabbandieri era stato infatti rinvenuto un quantitativo esorbitante di bottiglie di rum contraffatte, con etichette e turaccioli fallaci; si diceva infine che tutto il liquore era stato sequestrato e portato in centrale per accertamenti. A me pareva semmai, a giudicare da quelle superficiali ricostruzioni della polizia, che il rum fosse stato sì sequestrato e portato in centrale, ma anche ivi scolato in allegria.
     Tuttavia, nonostante l’eliminazione di due pericolosi avversari, quelle rubelliti continuavano a scottare maledettamente nelle le mie mani; dovevo al più presto sbarazzarmene. Consegnarle alla polizia? No, troppe spiegazioni da dover dare (e l’Ispettore Ottanio neppure le avrebbe capite...). Buttarle a mare? Che peccato! Rilucevano in una maniera talmente invitante... E poi, in quel modo non mi sarei mai affrancato dalla vendicativa voracità del clan degli Abbatecola. Avevo sollevato un polverone e stava a me ora risistemare tutto per il suo verso. Se volevo evitare ritorsioni (o torsioni, magari del collo!), mi restava un’unica possibilità: abbandonare quelle velleità di giustiziere che fin lì mi avevano animato e, con la coda tra le gambe, riportare le rubelliti ai loro vecchi possessori; solo così, potevo sperare di farla franca. A malincuore dovevo riconsegnare il malloppo a Ganascia e Tartaglia. Di certo non al Ciattanuga... Anzi, se giocavo bene le mie carte, potevo farmi bello agli occhi dei primi due svelando loro che il ‘collega’ Les li aveva bellamente traditi e turlupinati. Sì, perdiana, questa era la soluzione migliore. Così sì che avrei salvato il cul... sì, insomma... le natiche, via! Piuttosto, come fare? Non avevo molto tempo a disposizione: schiere di sicari potevano già essere sulle mie tracce, qualunque fosse l’identità attribuitami (Dino Zingo, Fausto Kazz, un portaborse di Peter Fauna, un leccapiedi della mafia di Burgos, un doppiogiochista di Vanv oppure ancora un coglionazzo che passava di lì...). Scartai l’idea di consegnare le rubelliti direttamente nelle mani di Ganascia e Tartaglia. Sarebbe stato come andare al macello. No, mi serviva qualcuno che potesse fungere da fattorino... Vi ragionai su per almeno tre ore, poi il lampo di genio. Arraffai la copia del Gazzettino che avevo poco prima letto e la sfogliai fino alla pagina degli spettacoli; curiosai tra le attrazioni serali del quartiere dell’Old Begallus alla ricerca del posto in cui si sarebbe esibita Eva Margutte, la più troia di tutte. Non ci misi molto a trovare il richiamo di un locale denominato Bar Gioni, ubicato in Via Culo: “Stasera lasciate a casa le vostre mogli brutte. Venite al Bar Gioni: c’è Eva Margutte!! Alle 23 l’attesa sarà grande: l’Eva si leverà le mutande!!”. Mm… molto interessante… Questo Bar Gioni ci sapeva fare con i clienti…
     Presentarmi dalla Margutte in un clima tanto infuocato era operazione piuttosto rischiosa: di certo non volevo si verificassero inconvenienti come la prima volta al Bar Abba dove l’avevo scampata soltanto per un pelo. Oltretutto in quella parte della città mi ero pregiudicato il rapporto con molti pregiudicati; la mia faccia cominciava ad essere maledettamente conosciuta negli angoli più malfamati dell’Old Begallus. Optai così per un travestimento. Ebbene sì, mi sarei presentato ad Eva sotto le sembianze di... sua sorella: camuffamento ambizioso, lo riconosco, ma l’unico che ritenni plausibile per avvicinarla in quel momento particolarmente delicato. Era dunque il momento di aprire la valigia del trasformista. Tenevo da sempre nel ripostiglio di casa un vecchio baule con tutto ciò che poteva tornare utile ai miei mascheramenti durante le indagini più spericolate. Il baule era come al solito fornitissimo: intanto giudicai che una vecchia parruccona rosso mogano di zia Guendalina facesse davvero al caso mio. Dopo averla calzata, dovetti ammettere che mi donava tantissimo… Un trucco pesante, una camicetta rossa, gonna a tubino nera, calze nere e un paio di scarpette rosse con tacchi a spillo (sono bravissimo a camminarci) completavano magnificamente l’opera. Andai poi al frigorifero, presi un cocomero, lo divisi in due metà esatte per poi foderarne ciascheduna con un morbido panno di cotone; infine, con un sistema di molle e tiranti realizzai un’imbracatura artigianale che mi sistemai all’altezza del torace con la funzione specifica di reggiseno; quivi disposi le due metà del cocomero per ottenere una sesta taglia invero invidiabile. Ora ero dunque pronto per quel tète à tète (o ‘tetta a tetta’, se preferite) con la Margutte. Insomma: se sorelle dovevamo essere, in qualcosa dovevo pur somigliarle. Rimaneva semmai l’inghippo (non indifferente, per una donna) dei miei baffetti; mai avrei potuto tagliarli per una ‘carnascialata’ qualsiasi… Dopo attimi di grande cogitazione decisi per uno spesso foulard nero da tenere avvolto fin sotto il naso e con cui sarebbe stato piuttosto facile celare quell’inopportuna peluria.
     Misi infine le rubelliti in una trousse di strass che avevo vinto in una fiera di beneficenza e di cui mi vergognavo assai (l’occasione buona per liberarmene, insomma), ci rovesciai dentro le rubelliti e mi ritenni pronto per uscire.

     Per una maggiore sicurezza avevo parcheggiato la Scaberwilly ben lontano dal bar dove ero diretto; così, nel lungo tragitto che dovetti compiere a piedi, sculettai un po’ per il quartiere anche per prendere confidenza con le mie nuove fattezze; fortuna che il fortunale costrinse molti a starsene a casa tanto che le strade erano buie e solitarie. Erano passate da poco le 22 quando raggiunsi Via Culo e una squallida insegna al neon m’indicò il Bar Gioni.
     “Cosa prendi, bella pupa?”, mi chiese appena fui vicino al bancone un cameriere che scuoteva a tutto braccio uno shaker.
     Mi coprii ancor più con il foulard e attaccai con la voce in falsetto: “Niente, grazie. Sono la sorella di Eva Margutte; avrei bisogno di parlarle. Posso raggiungerla in camerino?”.
     Il cameriere mi guardò bramoso: “Ma certo! Vieni che ti ci accompagno io”. E indicandomi un corridoio laterale, fece l’atto di farmi passare per primo. Quanta galanteria, pensai tra me e me; altro che il Clancy del Bar Abba! Come non detto: appena il tempo di fare un paio di metri e quel maiale mi dette una sostanziosa palpata sul sedere. La mia voce uscì stavolta al naturale: “Oh cretino!”.
     “Ehi, ma qui abbiamo un ‘donnino’ tutto pepe, eh? Mi piacciono le tipe toste e mascoline… ed anche quelle con due belle chiappe sode come le tue”. E sì che lavorava in Via Culo!
     Per il bene dell’indagine dovetti sopportare le sfrontate avances del sudicione ma garantisco che non fu per niente facile: mi sentii veramente umiliato nella mia intima essenza di donna. Inghiottii dunque a fatica, mi riappropriai del falsetto e tornai ad interpretare la sorella della Margutte.
     Giunti alla porta del camerino, prima di bussare il gentleman s’informò circa le mie generalità: “Com’è che ti chiami, chiappona?”.
     Studiai un nome che potesse aiutare Eva a rammentarsi di me: “Mi chiamo Zinga”.
     Il cameriere bussò: “Eva, c’è qua tua sorella Zinga”.
     Da dentro risuonò la suadente voce della Margutte: “Sorella??? Ma che dici, Nando? Io non ho sorel… Aspetta: come hai detto? Zinga?”. Aprì immediatamente la porta e non appena mi vide, riconoscendomi pur paludato com’ero, non seppe trattenere una rumorosa risata. “Zinga! Sorellina cara!”, mi fece poi gettandomi le braccia al collo e trascinandomi all’interno del camerino.
     Appena ebbe chiuso la porta, Eva prese a ridere a crepapelle tanto che prima di ricomporsi passarono diversi minuti.
     Riuscii ad interrompere il suo sollazzo soltanto quando presi a farle qualche domanda di circostanza: “Dunque: la vostra attività procede che è una meraviglia. Anche stasera avete fatto il pienone”.
     “Sì, ho il mio pubblico di fedeli affezionati”, disse sorridendo.
     “Salirete sul palco tra poco?”.
     “Una mezz’ora”.
     “E ditemi, via: quale abito di scena indosserete stasera?”, domandai tanto per creare ulteriore familiarità.
     “Mm... stasera indosserò...”, fece guardandosi un po’ attorno quasi ancora dovesse sceglierlo. “Mm... indosserò quello”.
     Mi indicò una sedia vuota.
     E io un po’ tontamente: “Ma come? Ma lì non vedo null...”. Appunto.
     La sua spontanea risata mi chiarì la facile allusione.
     Nessuna distrazione, mi dissi. Dovevo rimanere concentrato sui motivi per cui ero lì. Certo che, proprio a questo proposito... Insomma, qualche dubbio sulla scelta di rimettermi nelle mani della Margutte... Voglio dire, era pur sempre la donna di un mafioso... Una semplice spogliarellista... Era veramente affidabile? Anche il fatto di averla lasciata al Bar Abba commossa per la morte dell’amico Pegus Baita e vederla ora allegra e spensierata, a distanza di così poco tempo, in effetti mi fece dubitare circa la sua sensibilità d’animo (d’altronde  il dorato mondo dello spettacolo è in realtà – le signore mi perdoneranno – un dorato mondo di merda). Avrebbe la Margutte compreso fino in fondo la delicatezza dell’incarico che le commissionavo? Comunque, che avessi fatto bene o meno, ormai a lei avevo deciso di affidare sia le rubelliti della contesa sia un messaggio importantissimo che avrebbe potuto salvarmi la vita: dovevo spiegarle tutto con puntiglio e poi incrociare le dita.
     Le raccontai gli avvenimenti dall’inizio alla fine. Forse esagerai un po’ troppo a calcare la mano quando sottolineai le modalità dell’omicidio del Baita e del successivo sbudellamento del suo cadavere ad opera del dottor Latimer. Eva si contrasse subito e gli occhi le si inumidirono: “Oh mio Dio, povero Pegus! Che fine orribile! Se solo si fosse confidato con me, magari l’avrei messo in guardia da certe frequentazioni...”.
     Era già tornata l’adorabile Margutte capace di esternare i suoi grandi sentimenti; tuttavia non era il momento dei rimorsi: “E’ inutile battersi il petto, Eva. Oltretutto nel suo caso occorrerebbe il permesso dei Beni Culturali. Pegus se n’è ito nel modo più penoso ma ci lascia un’eredità pesante: pesante due chili, all’incirca. Due bei chili di rubelliti. Bada qui!”. E tirai fuori la trousse di strass. Eva si asciugò gli occhi per rifarseli subito dopo: le pupille le si dilatarono per la maraviglia non appena le mostrai le luccicanti gemme.
     “Dio, sono bellissime!”. E subito appresso: “Ne posso tenere una? Dài, Dino, per favore!”.
     Visto che richiusi la trousse mostrandomi riluttante a soddisfarne la cupidigia, la diabolica Eva sfoderò tutta la sua consumata arte e si allargò un po’ la veste. Era già tornata l’adorabile Margutte capace di esternare le sue grandi mammelle. Poi mi fece con voce sensuale e intrigante: “E dài, Dino! Perché vuoi fare il cattivo con la tua sorellina?”. Con una mano aprì un altro bel po’ di veste: devo dedurre avesse una caldana improvvisa. 
     “Eva, già l’indagine è stata molto difficile; se poi voi fate così, io proprio non riesco più a raccapezzolarmi... Ehm... a raccapezzarmi, ecco!”.
    Mi era sempre più vicina: giuro che la caldana a quel punto ce l’avevo io, tanto che il trucco con cui mi ero abbellito rischiava di colarmi lungo il viso. La Margutte ora mi carezzava il collo bisbigliandomi melliflua all’orecchio: “Dài, Dino, solo una gemmetta... Che ti costa? Io poi so essere riconoscente, sai?”.
     Non resistetti oltre: riaprii la trousse, intuffai la mano nelle rubelliti, ne presi cinque in una manciata e gliele consegnai; operazione che feci tutta d’un fiato, invitando poi la più troia di tutte a nascondere immantinente quelle costosissime gemme in qualche posto sicuro. La Margutte, al colmo della gioia, infilò le rubelliti in un astuccio che rimpiattò all’istante e poi si ricompose subito chiudendo nuovamente la veste (ecco la riconoscenza di cui era capace la donna di Santapace!).
     In fin dei conti meglio così; ero lì per uno scopo preciso. L’infallibile investigatore privato che sono diventato, il professionista irreprensibile che mi fregio d’essere, giammai si sarebbe prestato alla smaniosa vogliosità di una entreneuse. Ma per chi mi avete preso? Ma figuriamoci! Ma che si scherza davvero? Ma che siete grulli?
     Piuttosto, riacquistata lucidità, dettagliai al massimo le mie istruzioni circa la restituzione del bottino. Infine precisai: “Mi raccomando, Eva: non fate assolutamente il mio vero nome. Dino Zingo per la mala non deve esistere. Dite piuttosto a Fred che a recuperare le rubelliti è stato il grande Fausto Kazz. E’ importantissimo che non vi confondiate: Fausto Kazz. E’ chiaro? Via, un cognome come questo voi lo dovreste ricordare...”.
     Intanto nella sala principale del locale montava la trepidazione di coloro che erano venuti a vedere l’esibizione della Margutte tanto che anche dal camerino si cominciò a sentirne risuonare sempre più alte le volgari urla. Erano un branco di invasati.
     Ebbi una reazione impulsiva: “Ma insomma, come fate? Non siete stanca di questa vita, Eva? Sbattersi tutte le sere in questi ambienti infimi; questo Bar Gioni poi... Non mi fate dir niente, via...”.
     “E’ il mio lavoro, Dino. Lo faccio da sempre”, fece lei candidamente.
     “Tutte le sere vi esponete al rischio che qualcuno degli avventori letteralmente... vi si avventi contro. In questi posti ci ho visto di tutto: mafiosi, briachi, drogati, puttanieri, magnaccia; e voi, permettetemi, vi concedete loro con troppa serenità”.
     “Ma tanto io ho il mio Fred”.
     Un morso di gelosia mi pizzicò il fondoschiena tanto che scattai d’istinto: “Ma si può sapere che cosa diavolo ci trovate in quel gangster di strada?”.
     “E’ così sexy! E poi è gentile, attento nei miei confronti... Mi usa talmente tante carinerie... Per esempio è così premuroso quando la sera, prima di andare a letto, si sfila la pistola e la posa sul comodino. E’ così protettivo”. La vidi illanguidirsi al solo pensiero... Mah! Ero convinto che a certe tipe piuttosto che la pistola sul comodino interessasse di più il bazooka sotto le coperte ma, è cosa nota, io di donne non capisco nulla; delle donne so soltanto che cominciano per ‘d’.
     Volli fare l’ultimo tentativo di redenzione: “Ma quale protezione vi può garantire un fuorilegge che ha mille faccende al dì da sistemare! Un fuorilegge che vi trascura al mattino perché magari è impegnato a svaligiare una ricevitoria, che non vi sta mai vicino durante il pomeriggio perché magari ha da piazzare una partita di droga o una bomba, che non torna a casa la sera perché magari ha da scortare Ninetto Abbatecola a qualche bisca del quartiere. Via, Eva! Sennò davvero...”. Mi parve un’arringa ben articolata.
     Ma l’Eva mi gelò subito: “Non è vero, Dino. Fred non mi trascura affatto. Per esempio tutte le sere viene a vedere i miei spettacoli e ad accertarsi che nessuno mi voglia esprimere il suo... entusiastico gradimento mentre mi esibisco”.
     “Come ‘tutte le sere’?”, chiesi ansioso.
     “Certamente. Perché? Anzi”, disse poi dando un’occhiata all’orologio sul tavolino del camerino, “dovrebbe già essere qui”.
     Trasalii. Scattai verso la porta, la aprii e guardai lungo il corridoio: Santa Madonna! Il gangster, col suo inappuntabile abito di velluto bordeuax, era appena arrivato: al bancone Nando gli stava versando da bere e pareva intrattenerlo con qualche chiacchiera di benvenuto.
     Richiusi la porta imprecando: “Ma puttana Eva!”.
     “Ehi!”, si accigliò la Margutte.
     “No, scusatemi, niente di personale... Il vostro Fred è appena entrato nel locale... Devo tagliare la corda istantaneamente. C’è un’uscita secondaria?”.
     “No, che io sappia. Però nel bagno delle donne, in fondo al corridoio, c’è una finestra che dà sulla strada...”, rispose lei sinceramente preoccupata per la mia incolumità.
     “Bene, proverò per quella via”. Riaprii la porta del camerino per creare uno spiraglio da cui osservare i movimenti nel corridoio: adesso, a giudicare dai gesti delle mani, Nando mi stava descrivendo mimando all’elegante gangster la portata delle mie tette e magnificandone la compattezza; ebbi appena il tempo di un rapido saluto a... mia sorella e un richiamo alle cose importanti che doveva ricordarsi di riferire, poi dovetti uscire in fretta dal camerino. Appena fui nel corridoio ecco venirmi incontro, spietato come un rapace, Fred Santapace. Per fortuna fui lesto a sgattaiolare nella direzione opposta da dove egli proveniva; vidi poi la porta della toilette per signore: ci infilai dentro con foga chiudendomi dentro uno dei bagni.
     Il fiatone non m’impediva di focalizzare il da farsi. Dunque: verosimilmente proprio in quell’attimo Santapace stava investendo Eva con una sequela di domande circa la visita della fantomatica sorella di cui era stato senza dubbio informato da quel beota di Nando: ma alla spogliarellista avevo lasciato l’asso nella manica per sottrarsi all’interrogatorio del suo Fred; infatti non appena ella gli avesse consegnato la trousse con le rubelliti e gli avesse spiegato che in realtà sua sorella non esisteva affatto ma che sotto quelle seducenti spoglie si nascondeva Fausto Kazz, improvvisato collaboratore del clan degli Abbatecola, Santapace – ne ero convinto – avrebbe trovato sufficienti tali giustificazioni. Tuttavia l’idea di rimanere in quello stabile non mi piaceva: con quella feccia non v’era da scherzare. Probabilmente la confidenza che avevo raggiunto con la Margutte non avrebbe disturbato l’affarismo del gangster Santapace, ma avrebbe senz’altro messo sul chi va là la gelosia dell’uomo Fred. Decisi che era meglio svignarsela: la finestrella del bagno, aperta in alto appena di lato al serbatoio dello sciacquone era piuttosto stretta ma un felino come il sottoscritto poteva farcela senza troppo penare. Montando in piedi su un termosifone riuscii facilmente ad affacciarmi alla finestrella; bene, sotto c’era una piccola strada secondaria per niente frequentata e il salto non sarebbe stato disagevole. Con la forza delle braccia m’issai facendo uscire le spalle dalla finestra e mi apprestavo a far scivolare all’esterno il resto del mio corpo quando, ohibò, non avevo fatto i conti con la mia recente trasformazione fisica. Nonostante mettessi tutto il mio impegno, non riuscivo a cavarmi dall’apertura. Anzi, avevo finito per incastrarmi negli infissi per via delle due angurie. Chi aveva progettato una finestrella tanto stretta? Fosse stato per me quel Bar Gioni avrebbe chiuso bottega il giorno dopo!
     La situazione peggiorò di lì a poco, quando sentii armeggiare alla serratura del bagno. Neppure ebbi il tempo di gridare “occupato” che qualcuno era già entrato nella toilette, usando con tutta probabilità un passepartout. Era il temibile Nando; sentii la sua voce mostrare subito un sinistro grado di eccitazione: “Mmm... Ecco dov’era andata a cacciarsi la cara sorellina Zinga... Mmm, bella maialona...”. Senza neppure chiedersi perché mi stessi spenzolando fuori dalla finestra (manco fosse una bella serata estiva), il porco affondò le mani sulle mie chiappe e prese a palpeggiarle con mostruosa avidità.
     Santa Madonna! Quel bruto stava abusando delle mie grazie (e pensare che nessuno mi pagava per quella maledetta indagine! Ah, come vivrei meglio in generale se non avessi dentro di me questo forte senso del giusto)! Mulinai le gambe con furia cieca nello sforzo tipico del pistard controvento. Incocciai subito violentemente contro il mio aggressore: i miei tacchi a spillo, a giudicare dall’urlo di dolore e dalla sfilza di fitti bestemmioni che Nando mandò, dovettero coglierlo in un punto di vitale importanza. Fu senz’altro per la paura di rimanere ghermita di nuovo dalle mani del cameriere che, nel divincolarmi, finii per compiere un movimento che mi permise finalmente di liberarmi dall’incastro della finestrella: non appena riuscii a cacciare fuori le mie angurie, il loro peso era tale per cui caddi giù di sotto per semplice forza di gravità; picchiai una considerevole romba sull’asfalto di Via Gulliver, silenziosa traversa di Via Culo. Ma una volta in piedi, non stetti lì a controllare gli acciacchi: tolsi le scarpette con i tacchi, mi avvolsi ancor più nel mio foulard nero per ripararmi dal vento e dalla pioggia sferzante e, scalza e bellissima, corsi via a perdifiato nella direzione dove avevo lasciato la macchina (si parla, ahimé, di qualche chilometro).
     A quell’ora fortunatamente le strade erano deserte. Le uniche persone che incontrai sotto quel temporale furono tre balordi che stazionavano al riparo di un cornicione in forte aggetto all’altezza di Vicolo Barzottoni. Uno del terzetto mi lanciò un commento ammirato: “Guarda che poponi ha quella!”. “Sono cocomeri, per tua informazione”, gli feci con la mia voce naturale correndo via al galoppo. A quel punto il tale, dopo un attimo di smarrimento, mi urlò: “Ma vergognati, pervertito!”.

     Come volevasi dimostrare: l’indomani l’edizione del mezzodì del Gazzettino di Giudatown confermava quanto spietata fosse la malavita della città. Uno degli articoli della cronaca titolava infatti: “Nuovo delitto nell’Old Begallus – Assassinato il gangster Les Ciattanuga – Incredibile: la polizia brancola nel buio”. Lessi avidamente il resoconto: il Ciattanuga era stato fatto fuori la notte appena trascorsa; qualcuno gli aveva sparato un colpo in fronte; il corpo era stato trovato all’alba da un panettiere in un vicolo non lontano dal Bar Abba; curiosamente accanto al cadavere era stato rinvenuto un 45 giri, ‘Ci garba, ci garba’, un vecchio disco dei Capitan Jarba, su cui l’assassino aveva scritto a penna “COSTUI HA PERSO LA TESTA PER IL ROCK AND ROLL”. Sorrisi amaro. Mentre il giornalista seguitava col dire che l’Ispettore Ottanio si diceva convinto dell’esistenza di un serial killer che lasciava messaggi irrisori vicino alle sue vittime, io avevo già capito tutto. Quei due diavoli di Ganascia e Tartaglia non avevano perso tempo; la soffiata che avevo fatto pervenire loro tramite Eva (e quindi attraverso il Santapace) gli era bastata per decretare la fine del compare traditore; nel breve giro di qualche ora lo avevano già eliminato e poi avevano inteso addirittura rendergli la pariglia, ovvero ‘firmare’ il delitto a mo’ di depistaggio proprio come aveva fatto il Ciattanuga a danno loro; in più col messaggio sembrava volessero addossare la colpa dell’omicidio al loro rivale storico. ROCK AND ROLL”, avevano scritto. Eh, eh, vecchie canaglie… A chi altri potevano riferirsi se non a ROCCO ROLLER? Quella laida faida tra famiglie di malaffare non avrebbe mai avuto fine. Feci bene a non addentrarmici più di tanto. Intanto l’Ispettore Ottanio stava continuando a spremere quello che secondo lui era il principale sospetto dell’omicidio di Pegus Baita: si trattava, pensate un po’, di quel povero vecchio con l’ombrello con cui mi ero riparato in Via Spruce la sera dell’agguato dei due sgherri di Vanv e che io stesso avevo consegnato alla Gendarmeria pur di liberarmene in fretta; l’ispettore, cocciuto al pari di un picchio, era convinto che quell’ometto, oltre a sfasciare il negozio di grancasse di Art Gropp, avesse prima eliminato il fachiro e dunque seguitava a tormentarlo con la linea dura degli interrogatori più asfissianti; oltretutto l’atteggiamento ribelle e minaccioso del vecchio non deponeva a suo favore. Be’, che dire? Mi dispiaceva ma era troppo importante che la polizia non si orientasse mai bene in quella indagine. Ancor più: era una vera fortuna che l’Ispettore Ottanio avesse un incarico tanto importante in questura.
     Da par mio, dovessi adesso dare un giudizio a freddo su quella vicenda, posso dire che in fin dei conti m’inorgoglisce alquanto l’aver messo un bel po’ di pepe al culo ad alcune delle cosche più losche della città anche se alla fine avevo dovuto rinunciare a vedere dietro le sbarre tutti i responsabili dei delitti che erano stati commessi in quei funesti giorni. Avevo fatto tutto per amore della giustizia e per grande coscienza civica. E pensare che nessuno mi pagava per quella maledetta indagine! Ah, come vivrei meglio in generale se non avessi dentro di me questo forte senso del giust… Ah già, forse questo non lo posso più dire... In effetti non ve l’ho raccontata tutta.
     La sera in cui mi travestii da Zinga Margutte, affascinante sorella di Eva, vi ho detto che sistemai tutte le rubelliti nella trousse di strass. Be’, ecco... Non proprio tutte, via... Il fatto è che quelle gemme rilucevano in maniera troppo allettante, dannazione! Insomma, avevo per le mani un’autentica fortuna: con l’intero bottino potevo sistemare almeno tre generazioni di futuri Zingo. Ma, mi dissi, come potrei un domani guardare in faccia i miei figli se commettessi un reato odioso come quello dell’appropriazione indebita? Risolsi così il dilemma: decisi semplicemente che non avrei avuto figli. In questo modo non avrei mai dovuto guardarli in faccia e dare loro delle spiegazioni. Pertanto arrivai a un compromesso: restituii tutte le rubelliti, ma ne tenni una cinquina di quelle più piccole, che per le loro dimensioni tanto minute mi facevano quasi tenerezza (che dite? E’ una giustificazione credibile?). Sì, mi dissi, che vuoi che sia? Sono giusto delle scheggettine... delle pietruzze insignificanti... Quasi non si vedono... Via, al cospetto delle altre scomparirebbero... Insomma, non possono stare con loro… Quando poi le andai a rivendere però, devo dire invece che quegli umili ‘sassolini’ seppero comunque farsi valere e mi aiutarono a rifare la fiancata sinistra della Scaberwilly che il Ciattanuga mi aveva sfondato, a spassarmela per una vacanzina al mare di circa una settimana e a comprarmi la cucina nuova. Tutto fatto in omaggio alla memoria di Pegus Baita, ovviamente. Ci mancherebbe!

(fine dell'episodio)

domenica 29 gennaio 2012

ZINGO n° 3 "Grosso guaio a Giudatown" (6a parte)

(...segue...)

     Il giorno seguente impiegai tutto il pomeriggio ad accertarmi che nessuno fosse sui miei passi. Era fondamentale evitare di essere pedinato. Così girovagai per tutta Giudatown con l’unico scopo di far perdere le mie tracce a chiunque si fosse messo a seguirle. Camminai a piedi, usai mezzi pubblici e mi spostai infine con la Scaberwilly (dopo averla recuperata ben lontano da casa) fino a parcheggiarla a un paio di chilometri dal molo.
     Pur essendo il ritrovo fissato per l’ora di cena, arrivai sul luogo convenuto con due ore di anticipo: sì, volevo studiare bene il posto e conoscerne perfettamente anfratti, nascondigli e vie di fuga. Già all’imbrunire il freddo penetrava nelle ossa, eppure la grande tensione mi faceva sudare come un antilope nella stagione degli amori. Dopo perlustrazioni accurate e vari giri di ronda trovai finalmente un angolino ideale per rimpiattarmi: la cabina di un vecchio peschereccio in disuso, ormai ritiratosi in pensione e ormeggiato nella penombra; da lì potevo tenere d’occhio l’intero scalandrone.
     Il Molo di Frombole, un luogo tutt’altro che romantico anche in pieno giorno, diventava ancora più lugubre nel buio di quella fredda notte d’autunno; il mare si rompeva con fracasso regolare lungo i frangiflutti di cemento, il vento ululava con quanto fiato aveva in gola e l’acquazzone non risparmiava tuoni e saette. Era forse quello il giorno del castigo?
     Più le lancette si avvicinavano a marcare le 20, più cresceva il pentimento per essermi ficcato in quella situazione. D’accordo, a quel punto dell’investigazione avevo bisogno di mettere a confronto diretto tutti i protagonisti della vicenda, ma partecipare a un tal conclave di delinquenti poteva costarmi davvero caro (e pensare che nessuno mi pagava per quella maledetta indagine! Ah, come vivrei meglio in generale se non avessi dentro di me questo forte senso del giusto…). Il rammarico si trasformò in panico quando alle 20 spaccate vidi i fari di una macchina parcheggiare non lontano dalla darsena. Dopo poco due sagome scure si avvicinarono furtive a piedi fino ad arrivare allo scalandrone. Dal nascondiglio ove ero rintanato riconobbi piuttosto facilmente una delle due figure: Ganascia. L’altro doveva essere Larry Bronco detto Tartaglia. Al riparo dei loro ombrelli scrutavano attorno con diffidenza. Lo sciabordio del mare contro la fiancata del peschereccio di cui avevo preso possesso m’impedì di udire le parole fitte che si scambiarono. Poi a un tratto vi fu un rumore da una delle file di silos, forse il cigolio di un portellone. Ganascia urlò in quella direzione: “Chi va là? Kazz, sei tu?”.
     SGRANG! Per tutta risposta dai silos partì un colpo di bombarda che quasi polverizzò l’ombrello di Tartaglia. Costui gridò: “Per la pe-pe-pe-peppa!”. I due del clan degli Abbatecola si ritrassero fulminei fino a nascondersi dietro le rotaie di una mancina scortecciata. Appena ebbe ripreso fiato, Ganascia urlò: “Accidenti a te, Kazz della malora! Che razza di trappole ci prepari?”.
     Dovevo pur dire qualcosa: “Ohilà, ragazzi! Tutto bene?”.
     Ganascia urlava tutta la sua rabbia: “Imbecille che non sei altro, non ci hai riconosciuto? Ci è mancato poco che ci portassi via la testa di netto!”.
     “Ci deve essere un equivoco”, seguitai a vociare senza mostrarmi. “Io non ho sparato nessun colpo”.
     “Non pensare di farla franca, Kazz! Adess…”.
     SGRANG! La bombarda assassina colpì il telaio della grossa gru dietro cui stavano nascosti, provocando un fragore metallico e zittendo il Ganascia.
     Fu allora che dalla parte dei magazzini, ovvero dall’ala sud del molo si udirono tre fitti spari di fucile: BAM! BAM! BAM! Era chiaramente un Navinger. Dunque persino il Picciotto e il Piccione erano adesso della partita, anch’essi nascosti alla vista. Capii a quel punto chi era a maneggiare la bombarda dal lato nord, quello dei silos: altri non poteva essere che il segugio Rocco Roller, infaticabile pedinatore. Era la resa dei conti e se qualcuno quei conti pensava di farli senza l’oste-Zingo si sbagliava di grosso.
     RA-TA-TA-TA-TA!!! Ganascia e Tartaglia mitragliarono alla rinfusa verso i magazzini. Si erano forse resi conto che non potevo aver organizzato tutto da solo; avranno pensato che qualcuno li aveva seguiti fin lì.
     La ganga di Vanv parlò per bocca di Otto il Picciotto: “Kazz! Rispetta i patti!”, lo sentii sbraitare da lontano.
     “Ecco sì, rispettali!”, berciò Ganascia rafforzando il concetto.
     SGRANG! Rocco Roller sembrava non amare il dialogo e lasciava che a trattare fosse la sua bombarda.
     Forte del fatto che nessuno di quei criminali avesse ancora capito la posizione del mio nascondiglio, presi coraggio ed urlai: “Vedo che stasera c’è il pubblico delle grandi occasioni. Bene, signori. Chi vuole le rubelliti se le dovrà sudare”. Parevo proprio il Johnny Flint di ‘L’uomo dalla mano mozza’, sicuro e ardimentoso.
     “Maledetto! Peter Fauna pagherà caro questo scherzetto!”, gridarono in coro i due vanveri.
     “Maledetto! La mafia di Burgos pagherà caro questo scherzetto!”, fece eco Ganascia a nome del clan degli Abbatecola. Le minacce erano grosso modo le medesime, ma ognuno aveva il suo destinatario cui inviarle. Avevo scatenato una guerra senza eguali tra le cosche! E Rocco Roller, chiederete voi? Lui parlo così: SGRANG!
     Dopo quell’ennesimo colpo di bombarda si scatenò il putiferio.
      RA-TA-TA-TA-TA!!! RA-TA-TA-TA-TA!!!
     BAM!!! BAM!!! BAM!!!
     SGRANG!!!
     RA-TA-TA-TA-TA!!! RA-TA-TA-TA-TA!!!
     BAM!!! BAM!!! BAM!!!
     SGRANG!!!
     A quel punto volli partecipare anch’io a quella sagra della pistolettata. Spenzolai un braccio dalla cabina del peschereccio, puntai verso l’alto il mio revolver e al grido di “Ma andate tutti a fa’ ‘n culo!” scaricai in aria un tris di colpi: BANG! BANG! BANG! Così, tanto per non uscire dal coro, ecco. Mi piaceva l’idea di prendere parte a quella gran caciara.
     Fu proprio allora che dal mare si accese un faro accecante che illuminò il molo quasi a giorno.
     “Chi v’è?”, ebbi appena il tempo di chiedermi.
     Un battello era entrato nel molo a motore spento senza che si potesse rivelarne la presenza. Era forse la guardia costiera nel suo servizio di controllo notturno?
     PUM! PUM! PUM!
     No, la guardia costiera non spara cannonate nei porti.
     La situazione stava degenerando. Chiunque fossero quei pazzi sul battello, era rischioso rimanere lì anche un minuto di più. Nel fuoco di fila che seguì tra quelli sull’imbarcazione e i malavitosi nascosti a terra, tra imprecazioni e urla di dolore, capitò che per fortuna un proiettile infranse la lampada del riflettore del battello e il molo ripiombò nella sua naturale oscurità.
     Non persi tempo e scesi subito dal peschereccio sgusciando fuori dal mio nascondiglio. ‘Sgusciando’ è proprio la parola giusta perché i miei mocassini non erano le scarpe più indicate per fare l’equilibrista su una passerella bagnata: picchiai una gran culata sul cemento, evitando per poco l’acqua, travolgendo un bidone e producendo un gran rumore.
     “Ec-Ec-Ec-Ec-colo là! E’ Fa-Fa-Fa-Fa-Fausto Kazz!”. Fortuna che a dare l’allarme fu Tartaglia; quelle raffiche di ‘Ec’ e ‘Fa’ mi concessero qualche secondo di vantaggio in più e mi permisero di rialzarmi e scappare via lungo la ripa sdrucciolevole. Scelsi la direzione sud, la stessa dove avevo lasciato la Scaberwilly (sebbene molto lontana dalla strada che conduceva al molo). Dietro di me udivo distintamente grida e deflagrazioni: mentre zigzagavo tra le pozzanghere i proiettili mi fischiarono vicino. Pensai che la mia ora fosse giunta. I peggiori ceffi di Giudatown mi stavano alle calcagna come lupi alsaziani insaziabili e sapevo che non si sarebbero lasciati sfuggire tanto facilmente una preda così sconsiderata da averli voluti affrontare a viso aperto. Ad un tratto udii la voce del Picciotto: “Ecco lo vedo: quella sagoma davanti a noi! Lo tengo sotto tiro, quel Fausto Kazz della miseria!”. Il Piccione gridò concitato: “Sparagli, dài! Mira alla testa di Kazz!”.
     BAM! BAM!
     “Cilecca, faccia di Kul!”, urlai a mia volta.
     I miei mocassini invero mi furono a quel punto di grande aiuto: correndo sfrenatamente lungo il bordo della banchina, un bordo reso assai scivoloso dalla pioggia mista alla salsedine, quelle care calzature di cuoio slittarono via in aria facendomi perdere l’equilibrio. Finii in mare con un tonfo alquanto spettacolare e ben ricordo che detti una disgustosa gozzata di acqua salata, nafta e kerosene. Mi venne in mente uno dei precetti fondamentali che, quand’ero ragazzo, soleva impartirmi lo zio Chester: “Ricordati, Dino: bere il kerosene alla salute non fa per niente bene”. Eh, lo zio Chester! Mi ha insegnato tante di quelle massime… Comunque il volo in mare fece sì che i miei inseguitori, complice il buio quasi totale, perdessero le mie tracce di colpo seguitando la loro rincorsa lungo il molo e perdendosi nella foschia di quella drammatica notte tra berci, bestemmie, spari e smitragliate varie.
     Quando a fatica sortii dall’acqua potei vedere entrare nel porticciolo di Frombole una navetta con una luce lampeggiante sulla cima dell’albero: una voce al megafono intimava a quelli del battello col cannoncino di uscire sul ponte a mani alzate. Quella sì che era la vera guardia costiera!
     Siccome però non era mia intenzione essere coinvolto in beghe che avrebbero soltanto rallentato la mia indagine, mi defilai lesto come una torpedine e, pur zuppo d’acqua, m’incamminai di nuovo nella direzione ove avevo parcheggiato la Scaberwilly. Gli spari dei mafiosi erano ormai un’eco lontana ma occorreva comunque la massima prudenza.
     Nel tragitto che percorsi a piedi, mentre il freddo mi faceva battere i denti, rimuginai su quanto accaduto. Sul luogo dell’appuntamento si erano presentate tutte le forze in campo: Ganascia e Tartaglia, il Picciotto e il Piccione e financo Rocco Roller. Tutti con un unico, medesimo scopo: impadronirsi delle fantomatiche rubelliti che, chi per un verso chi per un altro, tutti pensavano fossero nelle mie mani. Ma, ragionavo io molto appropriatamente, se quei gangster si erano adunati al Molo di Frombole pronti a scannarsi l’un l’altro v’era da giurare sul fatto che nessuno di loro stesse bluffando o stesse facendo il doppiogioco. Dannazione! Quell’indagine era un vero rompicapo e mi procurava un bel grattacapo. Oltretutto da lì in poi li avrei avuti tutti contro, non avrei più potuto contare su alleanze di fortuna. Era chiaro che mi ero voluto far beffe di loro.
     No, dissi tra me sotto il diluvio, c’è qualcosa che sto trascurando. Dovevo ripartire dall’inizio, ovvero da quell’angusto cortiletto dietro al negozio di grancasse ove era stato nascosto il cadavere di Pegus Baita, uno dei più grandi fachiri dell’era moderna. Da lì qualcuno (qualcuno che non fosse nessuno dei malavitosi presenti al Molo di Frombole) aveva pur dovuto prelevare la preziosa salma del povero Pegus. C’era in effetti una lacuna nella mia indagine: avevo mancato di interrogare Art Gropp, il noleggiatore di grancasse. Egli era infatti in negozio al momento della sparizione del cadavere, prima che Tegolo ‘il babbeo’ gli desse il cambio verso l’ora di chiusura: la sua testimonianza avrebbe forse potuto chiarirmi qualche punto oscuro; magari, chissà, il Gropp si poteva all’improvviso ricordare il nome, o magari anche soltanto le fattezze, di un cliente che si era mosso in maniera furtiva e sospettosa all’interno della sua bottega la sera dell’omicidio. Sì, una visita ad arte ad Art Gropp sarebbe stata la mia prossima mossa.
     Detti un’occhiata all’orologio: le 21 erano passate da poco. Considerando che ero ormai vicino al posto dove avevo lasciato la macchina, forse avrei fatto in tempo a recarmi dal Gropp quella sera stessa. Certo, fradicio a quella maniera, non ero molto presentabile ma… a quel punto le formalità erano da tempo andate a farsi fottere.
     Arrivai alla Scaberwilly nel giro di un quarto d’ora e razzolai nel portaoggetti sotto il cruscotto dove tenevo un elenco telefonico e uno stradario della città. Dunque: Art Gropp abitava al numero 55 di Via Kalimba de Luna, nella zona collinare dell’Eastern Circus, quartiere ameno di cui non si potrebbe fare a meno. Pigiando sull’acceleratore come so fare quando mi ci metto d’impegno, vi sarei potuto giungere in orario ancora decente per suonare al campanello senza ricevere in risposta improperi o secchiate d’acqua ghiaccia.
    
     La dimora di Gropp era un edificio unifamiliare piuttosto ben tenuto. Parcheggiai la Scaberwilly davanti alla casa, scesi e arrivai alla porta d’ingresso; stavo per suonare il campanello quando sentii chiaramente una voce d’uomo (il Gropp, presumibilmente) provenire da dentro e parlare fitto fitto vicino alla finestra semiaperta, quasi rivolto verso l’esterno, in modo un po’ clandestino come per non farsi sentire da qualcun altro della casa; la voce diceva: “D’accordo, Les. Farò come dici”.
     Pausa.
     “Sì, capisco”.
     Pausa. Capii che l’uomo era al telefono.
     “No, aspetta, Les. Non suonare alla porta, perché in casa c’è quella megera di mia moglie Nilla. Vieni direttamente sul retro. Ti aspetto in giardino, nella baracca dove tengo gli attrezzi”.
     Pausa.
     “Ok, Les, ci vediamo tra cinque minuti”.
     Vi garantisco che la sorpresa di quel rapido colloquio mi fece spalancare occhi e bocca in un’espressione di rara maraviglia. Poche battute che davano finalmente un senso tutto nuovo alla mia indagine: il Gropp e Les Ciattanuga in combutta contro tutti e tutto! Sì, certo, quel Les al telefono avrebbe potuto anche essere un omonimo, ma se non sapessi fiutare il caratteristico odore della puzza di bruciato non farei questo mestiere. Non capivo bene il legame che poteva intercorrere tra i due, ma parecchi nodi a quel punto erano vicini allo sciogliersi. Tuttavia bisognava agire con la consueta pervicacia. Mi rimpiattai veloce dietro la mia Scaberwilly e mi misi in attesa. Di nuovo la voce risuonò dall’interno della casa, stavolta chiara e forte: “Nilla, esco in giardino; vado a sistemare le begonie nella capanna”. Detto fatto. Art Gropp, un omuncolo grasso e spelacchiato, uscì dalla porta di casa, la chiuse dietro di sé e prese poi a percorrere il vialetto di cemento che circondando l’abitazione portava nel giardino sul retro. Seguii la tozza figura del Gropp con passi felpati e silenziosi. Parevo un ozelot. V’era un gran buio, ma la sua torcia elettrica aiutava pure me a intravedere piuttosto bene il camminamento in cemento. L’obeso giunse alla baracca del giardino, entrò, accese la luce e chiuse la porticina. Mi sistemai nell’ombra in posizione strategica; quel capanno non aveva finestre ma le sue esili pareti di legno mi avrebbero permesso di ascoltare ogni parola. Gropp canticchiava felice.
     Dopo pochi minuti una macchina arrivò sulla strada all’altezza di casa Gropp con la classica inchiodata da film. Les Ciattanuga doveva essere proprio un bullo. Ma poi: SKATAPAMM!!!! Altro che bullo, Les Ciattanuga doveva essere proprio grullo. Forse non aveva calibrato bene la frenata e con tutta probabilità era andato a schiantarsi contro qualcosa lungo la via. Comunque eccotelo arrivare un minuto più tardi, avvicinarsi al capanno ed introdurvisi dopo un leggero triplo colpetto del pugno contro la porta.
     “Les! Che cos’era quel frastuono?”
     “Niente, Art. Ho picchiato con la macchina. Solo un graffio. Veniamo a noi: bisogna che tu nasconda qui in casa le rubelliti. Per me è diventato troppo rischioso”.
     “Qualcosa è andato storto?”, chiese ansioso il Gropp.
     “No, niente. Però c’è tensione tra i ragazzi del clan. Gli Abbatecola non tollerano il fatto che qualcuno gli abbia soffiato di sotto il naso 700 milioni di dindos… Quel cretino di Ganascia oltretutto giura di avermi telefonato appena dopo aver fatto secco il fachiro; dice di avermi ordinato di recuperare il cadavere nel tuo negozio e di portarlo subito dopo dal dottor Latimer”.
     “E tu l’hai fatto, del resto”.
     “Già, ma di testa mia, senza i suggerimenti di quell’imbecille. Io gli ho inventato che stavo fuori città quella sera ma Ganascia dice che al telefono gli ho pure risposto. Non so a che gioco stia giocando. Non vorrei che sospettasse qualcosa. Magari mi sta provocando per vedere se faccio qualche mossa sbagliata. Forse mi vuole tenere sulla graticola, il bastardo. Insomma, può darsi che il mio sia uno scrupolo eccessivo ma è meglio non correre rischi. Ecco, prendi, ti lascio in deposito le rubelliti, Art”.
     “Uuuh!”, fece estasiato l’ingordo Gropp. “Fammele vedere… Uuuh! Guarda, Les, guarda come luccicano… Ma quante sono! Uuuh! Lo sai cosa ci faccio con la mia parte? Pianto qui quella ‘cerbera’ di mia moglie Nilla, lascio il negozio e scappo via. Sì, Les, vado al mare. Mi comprerò una villetta dalle parti di Gruccia Bay, una di quelle con l’affaccio direttamente sulla spiaggia, sai? E li vivrò felice e contento per il resto dei miei giorni”.
     “Bravo, Art, ben detto”, fece Ciattanuga distrattamente.
     “Mi ci vedi, eh Les? Mi ci vedi sulla Playa de los Guardones a sorseggiare frappé su una comoda amaca o mentre massaggio le natiche ad un paio di procaci mignottone. Uuuh, già m’immagino la scena…”.
     “Sì, bene”, lo interruppe Ciattanuga con ben altri pensieri in testa. “Adesso ricapitoliamo. Ganascia e Tartaglia hanno il fiato sul collo di tutto il clan e questo ci permette una certa tranquillità nelle operazioni. I delitti di Baita e Latimer che gli ho fatto attribuire stanno creando loro un sacco di problemi. Tuttavia, per precauzione, lasciamo passare ancora qualche giorno; giusto il tempo di capire se quei due hanno annusato qualcosa attorno al sottoscritto. Tu intanto metti le rubelliti al sicuro, mi raccomando. Salvo emergenze, non mi chiamare. Mi farò vivo io”.
     Un paio di altre trascurabili indicazioni, un rapido saluto al socio e infine Les Ciattanuga, mefistofelico doppiogiochista, se ne andò dalla baracca lasciando la porta semiaperta. Dopo qualche istante sentii sgommare via la sua vettura. Il Gropp se ne stava ancora dentro quando una petulante voce di donna lo apostrofò da una delle finestre di casa: “Art! Idiota! Vieni a letto! E’ tardi”.
     “Arrivo subito, Nilla. Cinque minuti e sono da te”, urlò di rimando il Gropp alla moglie. Poi bofonchiò a denti stretti: “Brutta megera che non sei altro! Sfogati ora perché, tempo una settimana al massimo, io me ne vado a Gruccia Bay e col cavolo che mi rivedi!”.
     All’interno della sua baracca lo sentivo maneggiare le rubelliti e decantarne le lodi: “Ma guardatele! Brillano come stelle! Sono la luce dei miei occhi”. Il grassone principiò perfino a cantare a bassa voce un motivetto di fantasia e a inventarsi parole al limite del delirio: “Trallallero trallallà, le rubelliti eccole quaaa/ Ora me ne vado in fuga, col mio amico Ciattanugaaa/ Gruccia Bay è là che aspetta; mi ci faccio una casettaaa/ La rubellite è qui che brilla; vaffanculo a mi’ moglie Nillaaa/ Alla Playa de los Guardones, io ci porto le mignottoneees”.
     Decisi che era il momento di entrare in azione. Sortii dal nascondiglio e m’infilai nella baracca senza produrre il minimo rumore. Art Gropp era di spalle e seguitava a snocciolare stornelli in rima.
     Con un maligno tono di voce, simile a quello del vigile che pesca l’automobilista in sosta vietata, dissi all’improvviso: “Buonasera, Gropp”.
     Il noleggiatore di grancasse trasalì a tal punto che lì per lì pensai lo potesse stroncare un infarto. In una frazione di secondo coprì con un panno le rubelliti con cui stava gingillandosi e si voltò di scatto con il terrore negli occhi: “Chi siete? Che ci fate nella mia baracca?”.
     “Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e mi sa tanto che Lei dovrà rinunciare al quieto vivere di Gruccia Bay e ai suoi sogni lussuriosi sulla Playa de los Guardones”.
     “Fuori di qui! Chi vi autorizza a ficcare il naso laddove non dovreste?”. Il pingue Gropp non aveva in testa più di 25/30 capelli, invero molto lunghi, che faceva passare più volte in cima alla testa glabra con un riportino disgustosamente unto. Le gote paonazze tradivano la sua alterazione. La fronte imperlata di sudore tradiva la sua allerta. Il suo alito pesante tradiva alcuni ingredienti della cena: fichi e salame, o comunque affettati vari in gran copia.
     “Mi consegni immantinente quelle lucenti rubelliti”, gli dissi facendo gli occhi del basilisco. “Se Lei collabora, vedrò di evitarle rogne con la polizia”.
     “Le rubelliti sono mie; le difenderò con le unghie!”. Avido e impavido, il nostro Gropp.
     Non feci discorsi: con un ceffone a mano aperta gli sbalestrai il riporto. Il Gropp strillò acutamente dopodiché, pieno d’ira, mi offese senza mezzi termini la mamma.
     Decisi che con quel tipo avrei dovuto proseguire nella linea dura e mi predisposi ad un combattimento corpo a corpo: “In guardia, panzone!”. Quello, rallentato nei movimenti dalla spessa coltre di grasso, non ebbe neppure il tempo di parare il mio primo colpo. E dove lo colpii il Gropp secondo voi? Ma certo, proprio lì dove suggeriva il suo stesso nome. Infatti nel rifilargli quella percossa commentai ghignante: “Gropp! Prendi questa sul groppone!”.
     “Ma tu sei un vero judoka, porca l’oca!”, ammise con un gemito strozzato il noleggiatore di grancasse vedendosi ormai ad un passo dalla resa.
     Quel riconoscimento mi ringalluzzì alquanto: fulmineo quanto un falco smeriglio in picchiata, picchiai (appunto) il Gropp come un ladrone della sua risma meritava. In tutto sette sberle ben assestate, un paio di colpi alla schiena e una generale scrollatona finale: “Ora vuota il sacco, vile ghiottone di salumi. Come hai fatto ad impossessarti di queste gemme preziose?”.
     Sudato fradicio, il poveraccio scoppiò in lacrime: “Io… io… io non volevo… E’ stata tutta colpa di Les Ciattanuga. Io sono un povero negoziante onesto… Sigh! Sigh! Sigh!”.
     “La sua è un’autodifesa straziante. Ho il gropp in gola”. Mentii. In realtà anziché in gola il Gropp mi rimaneva un po’ più giù. Sullo stomaco. Seguitai con le intimidazioni: “Se non mi racconti tutto per filo e per segno, ti scotenno!”. Forse esagerai un po’ ma ormai ero completamente calato nella parte.
     Art Gropp principiò tra i singhiozzi il suo resoconto i cui punti fondamentali cercherò ora di riassumervi. Il noleggiatore di grancasse e Les Ciattanuga erano conoscenti di vecchia data, addirittura dai tempi del catechismo; per quanto le loro strade professionali fossero ben distanti, il rapporto d’amicizia li teneva tuttora piuttosto stretti. I fatti: qualche giorno fa Ciattanuga viene a sapere da due suoi ‘colleghi’, Ganascia e Tartaglia, che il fachiro Baita – residente proprio sopra la bottega del suo amico – custodisce in corpo per conto degli Abbatecola un bel paio di chili di rubelliti; odorato l’affare a danno del suo clan, si accorda con l’amico Art perché tenga d’occhio il Baita nella speranza di cogliere l’attimo propizio per fargli la festa; ma, per un caso del tutto fortunato, il cadavere del fachiro... ‘piove dal cielo’ la sera di martedì; un rumore sordo fa accorrere il Gropp nel cortiletto della sua bottega e chi ti trova infatti il grassone se non il Baita freddato da mani ignote? Gropp non indugia: avverte al telefono Ciattanuga il quale è prontissimo a far scattare il piano e a dare ordini dettagliati; Art infila dunque il corpo del fachiro all’interno di una grancassa Zurg e poi finge di doverla urgentemente consegnare di persona, tanto che chiede al proprio garzone di bottega, quel rintronato di Tegolo, di fare la chiusura per la sera. Carica tutto sul suo furgoncino Frana, passa a prendere Les Ciattanuga ed insieme si recano poi dal dottor Latimer in Viale Barracuda; il chirurgo, peraltro già avvertito da Larry Bronco detto ‘Tartaglia’, si mette tranquillo al lavoro ed estrae dallo stomaco del fachiro le preziose rubelliti; poscia Ciattanuga, affinché il dottore non abbia a parlare, gli pianta un bisturi nella collottola e cerca di mettere in difficoltà Ganascia lasciando un messaggio cifrato che, scritto alla maniera dei malavitosi, sembra indicare lui come responsabile dell’omicidio; più tardi farà rinvenire il cadavere sventrato di Pegus Baita presso l’imbarcadero con un altro messaggio in codice che getti ombra sull’altro scagnozzo del clan, il Tartaglia.
     “Bene, bene, bene… Adesso le rubelliti mi seguiranno alla centrale di polizia; vuole gentilmente passarmi il fagotto, Gropp?”, dissi non appena egli ebbe finito di enunciare i fatti.
     Il noleggiatore sembrava alquanto indeciso, forse valutava ancora una qualche possibilità di salvezza e continuava a stringere tra le tozze mani il sacchetto con le rubelliti. I suoi singulti di pianto erano invero penosi. Io però non avevo tempo da perdere: presi al volo il vaso di una begonia lì vicino, lo sollevai rapido in aria e lo lasciai ricadere pesantemente sul capoccione del Gropp: ecco, adesso mi sembrava davvero commosso; intendo riferirmi alla commozione cerebrale che gli avevo procurato. Caduto a terra come un sacco di concio, il Gropp dormiva ora sonni tranquilli e dava a me la possibilità di entrare finalmente in possesso di quelle dannate rubelliti; ad ogni modo, per evitare che una volta ridestato potesse avvertire subito quel lestofante del Ciattanuga, lo legai stretto con una fune che trovai lì nel capanno e gli infilai in bocca un grosso bulbo di begonia.
     Abbandonai il giardino del grassone e tornai su Via Kalimba de Luna; quando giunsi in strada, alla luce dei lampioni, vidi sull’asfalto bagnata la strisciata delle gomme della macchina di Ciattanuga: una frenata di parecchi metri… Ma, Santa Madonna! Quelle lunghe striature in realtà portavano diritte verso la mia Scaberwilly, parcheggiata con gusto e precisione lungo il marciapiede… Corsi presso la mia povera vettura e, quando vidi orrendamente rincalcata tutta la fiancata di manca, poco ci mancò che un mancamento mi facesse perdere i sensi. Dannato Ciattanuga! Ecco contro che cosa aveva urtato poco prima! Una ragione in più per assicurarlo alla giustizia, quell’imbroglione! Piansi a dirotto sul cofano della Scaberwilly per circa quaranta minuti (e pensare che nessuno mi pagava per quella maledetta indagine! Ah, come vivrei meglio in generale se non avessi dentro di me questo forte senso del giusto…). Affranto e sconsolato, decisi che era pur ora di tornare a casa.

(...continua...)