domenica 15 gennaio 2012

ZINGO n° 2 "Il grizzly d'alta montagna" (3a parte)

(...segue...)

     Fu così che, mentre il cielo principiava ad imbrunirsi, mi avviai a piedi lungo la strada che conduceva a Bubba Mountain percorrendola a ritroso rispetto al viaggio di andata. Il silenzio pressoché assoluto imperava incontrastato su quelle montagne e v’era una gran sensazione di pace; il rumore ovattato dei miei passi sulla strada innevata di fresco mi faceva tornare bambino, quando mi recavo a sciare con la famiglia dalle parti di Monte Bardens. La parte più poetica della mia anima godeva come una scrofa in calore. Tuttavia non erano d’uopo distrazioni di sorta; dovevo concentrarmi piuttosto sulle domande da porre al Nanni Salonicco.
     Quando infatti arrivai alla di lui dimora (una casetta niente male) avevo già chiaro in mente come attaccare l’interrogatorio. Siccome non vidi il campanello, aprii il cancellino con uno spintone e m’introdussi nel cortiletto tutto bianco di neve; il Salonicco era da un bel po’ che non spalava… Anche alla porta non v’era campanello. O allora? Va be’, bussiamo. E infatti bussai. Con molta forza.
     “Nanni, apra. Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e devo interrogarla circa il grande dramma che sta avvilendo l’intera popolazione di Bubba Mountain. Apra o butto giù la porta. Come l’amico Dende ha già fatto col vecchio McTillus, per intendersi”, gridai.
     Dall’abitazione, un villino ligneo a due piani con tetto a spiovente, non pervenne risposta alcuna. Mi scostai dunque di qualche metro dalla porta e tornai vicino al cancellino d’ingresso. Da lì vidi chiaramente appiccicato al vetro di una delle finestre del primo piano un tipo con un gran cesto di capelli crespi e due occhialoni da miope: era senz’altro il Nanni. Appena si vide scoperto, fece subito l’atto di tirare la tenda e rimpiattarsi lì dietro. Ma figuratevi se potevo lasciar perdere. Tornai alla porta e picchiai a mano aperta con tutta la forza che avevo in corpo: “Salonicco!! Se non apre questa porta giuro che le faccio saltare il cervello con un colpo di rivoltella!! Ha capito?”. Con questi tipi un po’ introversi bisogna sempre un po’ giocare a fare la voce grossa, eh, eh… Niente. Quello non voleva collaborare. Che avesse forse qualcosa da nascondere, il vile orbo? Perdiana, non sapeva davvero con chi aveva a che fare! Cominciai a girare attorno alla casa per cercare una finestra lasciata socchiusa o magari un appiglio per salire sul terrazzino del primo piano. Peccato però che oramai il buio avesse già avvoltola zona: ora, nonostante la luna e il biancore della neve, mi muovevo con molta difficoltà. Impiegai circa un quarto d’ora per trovare una scala sul retro della casa: con quella potevo arrampicarmi sulla parete e arrivare quantomeno alla finestra da dove avevo visto affacciarsi il Nanni. Poi avrei spaccato il vetro e mi sarei introdotto nella sua calda casa tempestandolo prima di schiaffi (vista la sua reticenza) e poi di tutte le domande che mi ero preparato. Accostai la scala alla parete e montai sui primi gradini quando, all'improvviso, il rombo di un paio di vetture lanciate a folle velocità risuonò nei paraggi. Con mia grande sorpresa vidi allora l’oscurità della valle rischiararsi ad intermittenza per via dei lampeggianti azzurri e rossi di due auto della polizia locale. Santa Madonna! Era John Necchi con i suoi scagnozzi!! Senza dubbio il Nanni aveva telefonato al comando chiedendo l’intervento di una pattuglia. E io me ne stavo lì come un babbeo, all’interno di una proprietà privata. Ero incertissimo sul da farsi… Feci per scendere dalla scala, poi ci ripensai e mi dissi che forse era meglio proiettarsi dentro casa Salonicco e nascondersi lì, magari minacciando con la pistola il padrone di casa affinché convincesse il Necchi che si era trattato di un falso allarme. Sì, questo era quello che avrei dovuto fare. Salii con foga gli ultimi gradini della scala ma quando arrivai sotto la finestra ed ero lì lì per aprirla con un cazzotto, il vetro di colpo si spalancò ed apparve in tutta la sua bruttezza il riservato Salonicco. Quel dannato miope non fece discorsi: mentre io protendevo le mani verso la balaustra della finestra lui mi versò in pieno volto una pentola di brodo bollente. Con dentro persino i tortellini. Avvertii un bruciore tremendo.
     “Tiè, perdigiorno!”, mi disse il Nanni vuotando il paiolo. In realtà più che il giorno persi l’equilibrio. E caddi dalla scala: TUNF! Fu un volo di tre metri, parzialmente attutito dallo spesso manto nevoso. Mentre il refrigerio della neve sul viso mi regalava un po’ di requie dopo l’ustione del brodo, mi trovavo adesso a dovermi difendere da Necchi e dai suoi. “Ho sentito un rumore venire dal lato della casa. Dev’essere là!”, sentii gridare uno dei gendarmi. Intanto Nanni Salonicco berciava soddisfatto dalla finestra: “Sììì, venite!!! Avanti sceriffo, l’ho colpito, l’ho colpito!!! E’ qui sotto, è qui sotto!!!”. Dannato spione! E io che volevo solo scoprire chi gli aveva rapito il tapiro (Faccio notare al lettore che rapito è l’anagramma di tapiro. Un tocco di classe cristallina, direi…). Mi rimisi in piedi e pur barcollando mi rimpiattai dentro la baracca degli attrezzi poco discosta. Da lì potevo vedere bene (oddìo, tanto bene magari no, dato che il brodo dei tortellini mi aveva investito in pieno gli occhi, ma insomma…) quella squadriglia di galantuomini muoversi compatta attorno alla casa e caricare i propri fucili a pallettoni. In mezzo alle loro ombre si stagliava contro la luna una corpulenta e minacciosa sagoma su cui svettava un grosso cappello da cowboy: John Necchi distribuiva fitti ordini a destra e a manca. “Jim, tu vai di là”; “Sam, copri Jack”; “Kevin, stai vicino a Renatino” (erano ordini molto ordinari… Senz’altro il Necchi aveva visto diversi film polizieschi di bassa lega). Intanto notai che all’interno di quel capanno v’erano due piccole taniche di benzina: benissimo! Mentre quei bifolchi là fuori pesticciavano la neve attorno alla casa del Salonicco, ebbi modo di versare tutta la benzina sulle cianfrusaglie all’interno del capanno; poi, proprio quando uno dei poliziotti (Kevin, mi pare) stava per venire a curiosare nel casotto degli attrezzi, accesi un fiammifero, lo gettai sul legname fradicio di benzina e mi rotolai velocissimo fuori del capanno. Le fiamme avvamparono altissime e l’allocco Kevin indietreggiò atterrito senza neppure accorgersi che gli stavo sfilando sotto il naso; correndo all’impazzata raggiunsi la boscaglia più fitta ove potei ripararmi meglio: John Necchi, coraggioso come una martora, sparò diversi colpi di fucile contro il capanno incendiato gridando: “Aiutooo!!! Là dentro si annida un mostro!”. Non resistetti allora ad una piccola vendetta: cavai fuori la mia pistola Poseidon 48, presi attentamente la mira e… BANG! Feci volar via il cappello da cowboy a quel gran villano; sulla sua capoccia spelacchiata riluceva ora il riflesso degli ultimi bagliori del falò. Necchi, preso alla sprovvista, senza neppure capire da dove fosse partito il colpo, raccattò il cappello e se lo calzò di nuovo sulla testa; poi, come vinto da un nemico più forte, radunò a sé i suoi uomini e, mentre il fuoco si affievoliva fino a spegnersi quasi del tutto, riparò assieme a loro entro casa Salonicco. Poco dopo, con la luce accesa in cucina e la finestra incautamente sprovvista di persiane, potei scorgerli tutti attorno ad un tavolo mentre si rifocillavano con una cioccolata calda servitagli in tazza dal ruffiano Nanni.
     Ero certo che per almeno diversi minuti quei ghiozzi avrebbero preferito rimanersene al calduccio anziché venire fuori a battagliare con un nemico pressoché invincibile. Era dunque quello il momento buono per uscire dal bosco, reimmettermi sulla strada e raggiungere di buon passo il borgo di Bubba Mountain, stazione sciistica tra le più prestigiose della regione – è bene rammentarlo ogni tanto. Così feci. Quando arrivai all’Hotel Grimaldi batterono le nove di sera. Ero stanchissimo e abbastanza malconcio. Pertanto, dopo essermi fatto servire un’ottima cenetta in camera, mi ficcai sotto le coperte e… buonanotte!
     Prima però di cedere totalmente alle lusinghe del sonno ebbi modo di ripensare all’intera faccenda: questi sciocchi montanari credevano davvero di essersi imbattuti nella voracità del grizzly e soprattutto si fidavano ciecamente dello sceriffo; invece era proprio lui che gli aveva carpito con la frode gli animali dalle stalle, dai pollai e dai salotti. Ma sì, il responsabile era John Necchi! Altrimenti perché avrebbe dovuto ostacolare Dende nella decisione di assumere il migliore investigatore privato oggi in circolazione? Quale motivo avrebbe poi avuto di aggredirmi con strane minacce nella hall dell’hotel il giorno avanti? Perché incaponirsi inoltre a giustificare i furti di animali con la storia del grizzly, quando invece v’erano segni inconfutabili di responsabilità… umane? Ma ve lo vedete voi, amici lettori, ‘sto bestione del grizzly entrare nel pollaio del vecchio McTillus proprio attraverso quella minuta porticina oppure, peggio ancora, introdursi nel distinto salotto del Nanni Salonicco e agguantargli l’amato tapiro? Va be’… Come ho detto, quella sera ero davvero esausto e le mie congetture rimasero in sospeso giacché caddi in un sonno profondo.
     La mattina seguente (anzi, diciamo meglio che si trattava ormai del mezzodì… Via, ve l’ho detto che ero molto stanco, che male c’era a dormire qualche oretta in più?) ebbi una sgradita sorpresa: la seconda visita dello sceriffo John Necchi. Come due giorni avanti il Necchi mi attendeva nella hall dell’hotel e appena scesi di seggiovia me lo trovai difronte con un broncio parecchio pronunciato. Non mi fece paura. Anzi gli dissi, da vero duro: “Che v’è, Necchi? Forse un forte mal di pancia?”.
     “Taccia, brutta testa di cazzo!”. Decisamente non era di buon umore. Poscia continuò: “Ieri sera si è verificato un fatto assai increscioso”.
     “Ah sì? Sarebbe a dire?”.
     “Sarebbe a dire che poco dopo il tramonto ho ricevuto la concitata telefonata di un esimio cittadino, Nanni Salonicco, il quale mi avvertiva della presenza di un individuo sospetto e screanzato che si aggirava nel suo cortile”.
     “Si sarà trattato senz’altro del grande grizzly… Sbaglio o da queste parti si suole dare sempre la colpa a quel bestione?”. Che ironia pungente!
     “No. Il grizzly non è un tipo di statura media con baffetti, occhiali, abbigliamento inappropriato e scarponcelli bigi da scalatore provetto. Questa descrizione, fornitami dal preciso Salonicco, è invece piuttosto simile a quella che si potrebbe dare di Lei, Zingo”.
     “Ah. Così il capo della polizia si fida delle particolareggiatissime descrizioni di un miope come il Salonicco?”.
     “E Lei come fa a sapere che Nanni Salonicco ha, diciamo, qualche problema di vista?”. Accidenti! Mi ero tradito!
     “Come faccio a saperlo? Semplicissimo”. E temporeggiai nella speranza che quello passasse ad altro argomento. Ma il Necchi fece: “Su, allora. Me lo dica”.
     Ma non la si fa tanto facilmente allo Zingo, eh, eh, eh… Difatti, eccoti servito il panzone: “Ma perché sono miope anch’io” (In realtà porto gli occhiali quasi per vezzo, ho un difettuccio da niente che mi obbligherebbe semmai ad inforcarli giusto durante le applicazioni… Il fatto è che alla fin fine nella mia vita io sono sempre applicato!) “Due anni fa a Giudatown si tenne il rinomato Premio Talpa, manifestazione itinerante che intende dare un riconoscimento al migliore orbo della città ospitante e dei dintorni. Ebbene, io e Nanni Salonicco da Bubba Mountain fummo i due finalisti. Vinse il sottoscritto e lui non me l’ha mai perdonato. Il vecchio Nanni! E’ davvero tanto che non lo vedo… Sono miope, d’altronde, come avrei fatto a vederlo?”.
     “Bah, mi sembra tutto molto strano… Comunque ieri sera ho radunato una pattuglia e siamo andati dal Salonicco per verificare cosa stesse succedendo. E lì quell’individuo ci è sfuggito per un pelo dopo una drammatica sparatoria”.
     “Ahi, ahi… Mi sembra che il suo cappello ne porti le conseguenze…”. E allungai l’indice verso il buco che centrava il suo ingombrante cowboy-hat (leggasi pure: coprichiorba) e che gli avevo procurato io con una precisa pistolettata.
     “Già. E’ stato un colpo a tradimento. Non ho neppure visto da dove sia partito”.
     “Ah, non l’ha visto? Beh, allora consiglio anche a Lei di partecipare al Premio Talpa. Avrà buone chanches di vittoria”.
     “Prima o poi le toglierò la sua licenza di scherzare”, mormorò a denti stretti.
     “Prima o poi le toglierò la sua licenza di sceriffo”, ribattei alla grande.
     Ci furono alcuni secondi di tensione in cui entrambi facemmo gran mostra delle rispettive mascelle serrate. Poi il Necchi disse: “Lei quindi nega di esser stato ieri sera a dare noia a Nanni Salonicco”.
     “Certo. Ho cose ben più importanti da fare…”.
     “Ecco sì, a proposito: a che punto è con la sua… indagine?”.
     “Sono ad un ottimo punto. Anzi consiglierei al colpevole di stare molto all’erta…”. Un’allusione davvero pungente.
     “Ma che consigli vuole dare ad un bestione alto due metri che con una sola zampata può staccarle la testa di netto?”.
     “Ma quassù siete proprio fissati con la storia del grizzly, eh?”.
     “Sì”, rispose gelido.
     “Bene. Quantomeno è una buona scusa per sviare sospetti. Comunque, Necchi, adesso mi deve perdonare ma ho molto lavoro da svolgere e non mi posso permettere ulteriori divagazioni. Arrivederci”. E voltai il sedere allo sceriffo. Senza tuttavia emettere alcun rumore molesto, sia ben chiaro.
     Per quella seconda giornata di indagini avevo stabilito di proseguire negli interrogatori di coloro che avevano subito i furti: la lista fornitami dal Dende era alquanto lunga e bisognava procedere di fretta. Feci un rapido spuntino che mi valesse tanto da colazione quanto da pranzo e, quando sortii dall’Hotel Grimaldi, giacché avrei dovuto camminare parecchio, ero in perfetto paludamento da trekking montano: cappellino di lana con simpatica papalina, giacca a vento con sotto un pesante maglione a scacchi, pantaloni impermeabili e, naturalmente, scarponcelli bigi da scalatore provetto; in più il consueto e inseparabile alpenstock e, sulle spalle, uno zaino zipillo di tanti attrezzi adatti ad ogni evenienza. Ero davvero deciso a combinare qualcosa di buono. Senonché, mentre attraversavo il paese, mi capitò di imbattermi di nuovo nel singolare individuo che avevo già incontrato sul trenino di Pintesboro, quello che recava con sé la gabbia col gatto persiano incavolato come una iena. Lo notai bene tra i turisti sia per l’altezza sia per una nuova gabbia che teneva in mano: stavolta vi teneva imprigionato uno spaurito babbuino dal deretano davvero arrossato. Fu probabilmente un lampo di genio quello che mi fece collegare quella pertica d’uomo al caso che stavo affrontando. “Vuoi vedere che il nostro amico qui, con tutti ‘sti animali appresso, sa diverse cosette riguardo alle sparizioni dei polli, dei tapiri e di tutte le altre povere bestie?”, pensai. Era un ragionamento istintivo ma l’istinto dello Zingo funziona che è una meraviglia. Sì, perdiana, dovevo assolutamente seguire quel tizio.
     Il figuro allampanato indirizzò le proprie lunghe falcate verso il vicino parcheggio. Dopo aver sistemato la gabbia nel bagagliaio della sua vettura – una Lester Brubus – , vi salì sopra, si sistemò al volante e partì. Non potevo perdere un'occasione così ghiotta, ohibò! Accidenti a quando il sindaco Dende mi aveva consigliato di venire in treno!
     Ma, un momento! Nello stesso parcheggio ove mi trovavo un signore impellicciato stava salendo in macchina, una splendida Black Custom del '70 tutta cromata; senz'altro sarebbe venuto in aiuto di un garante della legge. Mi accostai al signore, il quale aveva già infilato le chiavi nello sportello, e gli dissi concitato: "Salve. Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e ho bisogno della sua auto, questa meravigliosa Black Custom. Devo inseguire un tipo sospetto che sta rapendo tutti gli animali di queste montagne. Non le sta a cuore la salute dei cerbiatti di questa valle?".
     Quel tale mi guardò spaventato, poi sfilò rapido le chiavi dallo sportello e se le mise in tasca: "Credo sinceramente di non aver capito bene...". Santa Madonna! L'allampanato stava filando via che era un piacere...    
     Quando ripresi fui più sintetico: "Sono un investigatore privato. Ho bisogno della sua macchina. E' una questione di ordine pubblico".
     "Ah!", mi fece quello, "E da quando in qua le questioni di ordine pubblico si affidano a un investigatore privato?".
     "La prego: il criminale se la sta svignando. Mi dia la sua auto".
     "Ma non ci penso nemmeno", e si rinserrò ancor più nel suo pellicciotto.
     Dovevo insistere: "Suvvia, Mi dia la sua au...".
     "No".
     "Suvvìa, mi dia la sua...".
     "No".
     "Suvvìa, mi dia...".
     "No".
     Benissimo. La giustizia non può aspettare. Vista l'impossibilità di ragionare civilmente con quel signorotto di montagna estrassi la mia pistola Poseidon 48 e con movimento fulmineo gliela sbattei sul capo dalla parte del calcio, colpendolo appena sopra l’arcata sopraccigliare sinistra. Il tizio crollò a terra esanime, ma io non potevo trattenermi lì oltre. Gli misi una mano in tasca e gli tirai via le chiavi della vettura. Poi, veloce come un ghepardo, misi in moto e partii con una sgommata cercando immediatamente di fiutare la scia dell'allampanato fuggiasco. Purtroppo Bubba Mountain è un dedalo di stradine davvero intricato; tuttavia ebbi un colpo di fortuna, quella fortuna che generalmente sta solo dalla parte di chi realmente la merita, in questo caso il migliore investigatore privato di tutta Giudatown. Infatti, parcheggiata davanti alla farmacia del paese, scorsi la Lester Brubus nero corvina del nostro amico. Sostai nei paraggi con indifferenza e poi, quando il tizio uscì dalla farmacia carico di sacchetti e risalì in macchina partendo, io feci altrettanto seguendolo a una certa distanza (ho fatto diversi corsi di pedinamento, figuriamoci se qualcuno può insegnarmi come si debba fare, eh, eh...). Dopo un paio di chilometri l'allampanato era già fuori del centro di Bubba Mountain e viaggiava sulla statale che conduceva a nord. Poi di colpo arrestò la macchina, scese, aprì il bagagliaio, tirò fuori le catene e prese a montarle sulle ruote posteriori. "Benissimo: qui il gioco si fa duro. Se lui mette le catene le metto anch'io e poi ce la giochiamo alla pari sui ghiacciai", affermai con decisione. Scesi, aprii il portabagagli e... e non montai proprio un bel nulla, perché le catene non c'erano. Nemmeno tra i sedili posteriori. Maledizione! Un brutto colpo di sfortuna, quella sfortuna che ogni tanto si diverte a creare qualche intoppo a colui che altrimenti, per propri meriti, avrebbe sempre vita troppo facile, ovvero al migliore investigatore privato di tutta Giudatown. Quella delle catene, però, era davvero una “brutta tegola”, come avrebbe detto l’amico Gianni Luca Guido Relli, ottimo pilota di rally. "Nessun problema: si va avanti così", e rimontai in macchina. Così, quando il fuggiasco ripartì e sterzò a destra per una stradina in salita interamente nascosta dalla neve, io mi feci coraggio e lo seguii. Avrei cercato di piazzare le mie ruote lungo i solchi scavati da lui. In realtà potevo contare solo sulla mia abilità di pilota. Che comunque non è certo poca cosa.
     E così iniziò quel fantastico inseguimento che ancora oggi rammento con una certa commozione. Sulle prime mantenni un atteggiamento abbastanza accorto e prudente per capire come la macchina si adattasse al fondo scivoloso. Ma quella Black Custom era una favola e la si guidava con grande facilità; oltretutto l'interno, in legno di betulla, era davvero di gran classe e ricco di comforts. Intanto lo spettacolo naturale mozzava il fiato: tutto era candido e immacolato, non foss'altro per le chiazze più scure degli abeti che, pur imbiancati ben bene, riuscivano comunque qua e là a fare capolino bordeggiando la strada. E il silenzio della montagna più inesplorata era rotto solo dal rombo delle nostre due vetture... Sì, dal rombo, è proprio il caso di dirlo, giacché l'allampanato si era senz'altro accorto della mia presenza e, onde evitare problemi, aveva cominciato a marciare deciso al fine di seminarmi. Ma ormai anch'io giocavo a carte scoperte, non avevo più da nascondermi e principiai a pestare duro sull'acceleratore; così se la Lester Brubus là davanti si poteva permettere manovre azzardate grazie alle catene montate, la mia Black Custom si affidava unicamente alla sua agilità e alla nota perizia del suo pilota. Il terreno adesso aveva preso un andamento meno erto e a chilometri di lieve salita si alternavano ampi spazi in pianura. Fu proprio in questi tratti che mi scatenai andando largo in curva e derapando di continuo; sentivo la neve crocchiare sotto le ruote e queste slittare e stridere allorché toccavano lo strato di ghiaccio più solido; ero sempre più vicino alla Lester Brubus. "Ti ho nel sacco, smilzo che non sei altro!", pensai a quel punto tra me e me. Ero così eccitato che, notando che la vettura era dotata di un buon impianto stereo, per caricarmi ancora di più accesi la radio a tutto volume. Le casse tuonarono subito un vecchio successo della Jazz Cazz Band, "Creepy Night Show', un classico senza tempo che mi galvanizzò non poco. Così al ritmo di quel pezzo tirato finii presto in scia alla Lester Brubus e la velocità raggiunta dai due bolidi era davvero impressionante tanto che in curva mi capitava di lambire sempre più il margine della carreggiata. "Tra un paio di curve lo affianco e lo costringo a fermarsi", mi dissi deciso. Infatti attaccai senza indugio benché la macchina stesse perdendo totalmente in aderenza. Già, un particolare che non avrei dovuto trascurare... E' per me un po' imbarazzante doverlo ora raccontare, ma... vedete... capitò che alla curva immediatamente successiva (senz'altro per un improvviso lastrone di ghiaccio scoperto, non certo per mia incompetenza)... insomma, capitò che la macchina mi scivolò via col posteriore sbandando violentemente e scartando a sinistra; proprio mentre l'autoradio mandava le note finali di "Creepy Night Show" della Jazz Cazz Band – quel finale che è un autentico fuoco d’artificio – , uscii di strada perdendomi tra la boscaglia tra cumuli di neve fresca e finendo con l'impattare in modo tremendo contro un gruppo di grossi abeti.
     Picchiai molto forte la testa contro il cruscotto. Nella mia vita ci sono almeno quattro ore di vuoto.

(...continua...)



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