lunedì 16 gennaio 2012

ZINGO n° 2 "Il grizzly d'alta montagna" (5a e ultima parte)

(...segue...)

     Corsi per non so quante miglia. La neve cadeva abbondante e il silenzio era assoluto, al di là del mio bestiale ansimare. Pur nella confusione e nella scompostezza della fuga avevo cercato di mantenere la direzione giusta orientando la mia corsa verso nord ed usando le vette delle Montagne Rafelson come punto di riferimento. Probabilmente ero riuscito a rimanere perfettamente in rotta con la pista che avremmo dovuto tenere col compianto Bruger, grande e coraggioso grizzlologo. E pensare a quanti jodel avevamo intonato la sera prima… A quanto vin brulé avevamo schiccherato felicemente assieme… Ah, dannazione, talvolta la vita è proprio crudele! Pedalai imperterrito per almeno un altro paio d’ore. Poi, stanchissimo, mi gettai a faccia in giù su un cumulo di neve; giusto per riposarmi un po’, ma non v’era molto da scherzare giacché con il cielo coperto la luce del giorno sarebbe durata ancora meno del solito e non sarebbe stato piacevole dover passare la notte all’addiaccio. Rialzai il viso e che cosa ti vedo sul crinale davanti a me, a neppure dieci minuti di passo veloce? Sì, proprio la celeberrima Baita del Lupo Sfregiato. Almeno quella doveva essere se vero era che non vi fossero altre costruzioni nella zona. Mi scappò quasi da ridere per la gioia… Finalmente il destino mi arrideva, perdiana! Me lo meritavo. Mi rialzai, mi spazzolai a manate la neve di dosso e feci l’atto di ripartire a camminare. Purtroppo i miei guai non erano finiti. Un rumore sulla destra catturò la mia attenzione. Vidi muoversi delle frasche, sentii frusciare dei passi e poi… ecco sbucare di nuovo, tra i miliardi di fiocchi di neve che seguitavano a cadere, il grande grizzly! Sancta Mater Dei, un vero incubo! Non so se fosse il solito di prima o magari un altro esemplare della famiglia, certo è che i calcoli di Bruger erano del tutto sballati: i paraggi di Bubba Mountain erano ancora pieni zeppi di grizzly, altroché! In tutta sincerità non avevo né la forza né il tempo utile per scappare una seconda volta. Quel bestione mi era ormai troppo vicino… Rimasi immobile. Sapevo bene che anche usare la pistola non mi sarebbe servito a niente contro un nemico così corpulento; anzi v’era il rischio di ferirlo solamente e quindi incattivirlo ancora di più. Stranamente la belva mi stava davanti a circa due metri, si alzava sulle zampe posteriori in tutta la sua altezza, ruggiva tutta la sua prepotenza (“AAARGGHHH!!!”), ma non accennava a volermi attaccare.
     Questa fase di studio durò almeno dieci minuti; poi, siccome l’animale non si decideva a caricare, fui io a gettarmi contro di lui. E per ironia della sorte lo feci come se fossi una belva feroce. Presi a due mani il mio alpenstock e glielo puntai violentemente contro un fianco; il grizzly parve soffrirne e si piegò di lato fino a cadere pesantemente al suolo come un sacco di patate. Fu allora che decisi di approfittarne e in un attimo gli fui sopra colpendolo un po’ ovunque con il mio affusolato bacchiolo. Il grizzly bestemmiò: benissimo, si vede che i miei stonfi avevano effetto. Dovevo proseg… “Ma un momento!”, pensai pur nella foga della lotta. “Com’è che questo grizzly ha bestemmiato? Va be’ che è una bestia rara, ai confini della leggenda, che non va in letargo e che sfida giornalmente il freddo gelido di queste altitudini… ma che adesso conosca persino la nostra lingua mi pare eccessivo!”. Fu allora che proprio mentre il grizzly si riparava la testa con le zampe gli vidi sul pelame una lunghissima cicatrice che gli correva lungo tutto il dorso. No… un momento! Non era una cicatrice… Era… ma sì, era una cerniera! Ohibò, avevo a che fare forse con un bambolottone di peluche? In un attimo misi mano a quella malcelata chiusura lampo e ne feci scorrere il cursore. Era proprio un costume… come uno di quelli che si usano per i balli in maschera! E all’interno, rattrappito per le percosse ricevute vi trovai nientemeno che il figuro allampanato cui stavo dando la caccia da più di un giorno intero! Lo presi per la collottola e lo cavai fuori da quel suo paludamento a furia di robusti scossoni.
     “Vile canaglia! Porco e miscredente! Che modi sono questi di travestirsi da grizzly e spaventare i viandanti?”, e giù scappellotti sul capo.
     Lo spilungone era visibilmente scosso (da me, ovvio); tutto forse pensava fuorché trovarsi difronte un osso duro come il sottoscritto. Approfittai del suo smarrimento per aggredirlo verbalmente e minacciarlo con la pistola: “Adesso vuota il sacco, pertica, se non vuoi che ti crivelli di proiettili. Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e sono anche molto nervoso. Dunque: chi sei?”.
     “Mi… mi… mi chiamo Appalàchio”.
     “Per quale motivo hai preso le sembianze del grande grizzly che, ricordiamolo, non è vegetariano”.
     “Preferisco non rispondere…”.
     Non l’avesse mai detto: gli lasciai andare un ceffone che gli arrossò tosto la guancia destra. “Parla!”, gl’intimai con ferocia.
     “Beh… Dovevo tentare di spaventarla in modo da tenerla lontano il più possibile dalla baita”.
     “Aahh, la Baita del Lupo Sfregiato! E’ lì il vostro quartier generale?”.
     “Non facciamo niente di male… Semplicemente non vogliamo curiosi nei paraggi”.
     “Mmm… Chi v’è nella baita adesso? Lo sceriffo John Necchi per caso? E’ lui il tuo socio di malaffari, vero?”.
     “John Necchi? Socio? A dire il vero non capisco di cosa stia parlando… Forse c’è un equivoco…”.
     “E allora sentiamo: con chi ti sei diviso gli animali di Bubba Mountain e dintorni?”.
     “Io mi sono semplicemente limitato a portarne qualche esemplare al mio padrone”.
     “Il tuo padrone? E chi sarebbe?”.
     “Il Dottor Cispus”.
     Ohibò! Questa sì che era una novità! Sicché dietro a tutta la vicenda v’era davvero il proprietario della Baita del Lupo Sfregiato! E quindi questo Appalàchio altro non era che il di lui umile servo, non un malintenzionato che gli si era insediato nella casa di montagna a sua insaputa!
     “Per ben due volte, Appalàchio, ti ho sorpreso a trasportare gabbie con animali: sul treno di Pintesboro recavi con te un gatto persiano; ieri nel bagagliaio della tua Lester Brubus tenevi un babbuino. Eppure nessuno dei cittadini di Bubba Mountain ha denunziato il furto di questi animali. Dove li hai presi?”.
     “Su commissione del dottore, sono andato a prenderli in altre città; il gatto a Giudatown, il babbuino presso una villetta di Cappadocia Lake”.
     “Mmm… Qui v’è in atto proprio un fitto commercio di bestie, eh? Ancora non ne capisco la reale finalità, ma di ciò sarà meglio parlarne col dottore in persona che, immagino, dovrebbe trovarsi lì nella baita”.
     “Sì, è lì”.
     “E allora muovi le chiappe e portami da lui, cialtrone!”. E, per avviarne la camminata, gli rifilai un gran calcio nel posteriore. Appalàchio, veramente smilzo, mi precedeva di un paio di metri e sotto il tiro della mia Poseidon 48 mi condusse lungo il crinale fino alla Baita del Lupo Sfregiato. Era una bassa costruzione con il tetto a spiovente carico di neve; fuori v’erano parcheggiati un furgone giallo ocra e la celebre Lester Brubus nero corvina; quando arrivammo alla porta d’ingresso il longilineo servitore, sempre spronato dalle mie colorite minacce, tirò fuori un mazzo di chiavi e aprì. La casa, dall’arredamento di gran classe, sembrava vuota; Appalàchio disse: “Il dottore deve essere giù in sala”.
     “Prego”. Con un gesto brusco della pistola gli imposi di precedermi. Pertanto, pur contrariato, l’allampanato aprì una porticina laterale e cominciò a scendere una lunga scala a chiocciola. Lo seguii fino a che non arrivammo in uno stanzone enorme senza finestre ma con una sola saracinesca abbassata sul muro di fondo. Sembrava il covo di uno scienziato pazzo; anzi lo era. Lungo tutta una parete v’erano disposte in fila gabbie d’ogni dimensione con dentro animali di vario tipo. Al centro della sala, di spalle, stava il Dottor Cispus in camice bianco, chino su un tavolo operatorio; appena sentì entrare il suo fedele servo, chiese senza voltarsi: “Appalàchio carissimo, com’è andata? Hai spaventato il nostro amico ficcanaso?”.
     Tappai la bocca al pertica prima che potesse rispondere e decisi per un’entrata in scena in grande stile. Difatti urlai: “Non proprio!”. E poi… BANG! BANG! BANG! Tre terremotanti colpi di pistola sparati in aria che rimbombarono in tutta la sala e che innervosirono parecchio pure gli animali nelle gabbie. Il Cispus si girò di scatto atterrito quasi fosse in preda ad un attacco cardiaco; era un ometto dai capelli grigi, un po’ gobbo e con un paio d’occhiali dalla spessa montatura: “Chi è Lei?”, gridò esterrefatto.
     “Salve. Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e sono anche il vostro amico ficcanaso che a quanto pare volevasi spaventare con una ridicola mascherata carnascialesca!”.
     “Le pare questo il modo di entrare in un’abitazione?”.
     “Lo faccio abitualmente quando ho a che fare con dei criminali”.
     “Mi sembrano parole un po’ grosse… Si dà il caso che io sia invece un luminare della scienza”.
     “Non lo metto in dubbio: un luminare della scienza che però deruba i poveri bifolchi di Bubba Mountain e dintorni. E questo non va bene”.
     “Allude per caso agli animali che sto ospitando in queste gabbie? Ah, ah, ah… Lei è proprio un ingenuo, Zingo”.
     “Crede davvero?”.
     Cispus spense la lampada scialitica che stava sopra al tavolo e mise mano ad una maschera per narcosi: “Sto conducendo passi da gigante in campo scientifico e chirurgico; questi graziosi animaletti mi servono per compiere esperimenti di primissimo ordine”.
     “Di cosa si tratta?”.
     “Beh, vede, sto allestendo a Giudatown lo zoo più all’avanguardia che sia mai stato concepito da mente umana; una spettacolare esposizione di specie animali finora inesistenti. Sì, bestie che sto creando io artificialmente in base agli svolazzi della mia fantasia. Giusto una mezz’ora fa ho concluso una di queste mie operazioni”. Stava infatti rimettendo a posto i suoi bisturi appena disinfettati. “E’ stata una faticaccia, ma alla fine ce l’ho fatta. Guardi”. E mi fece cenno di avvicinarmi ad una delle gabbie. Io, tenendo sempre la pistola spianata, mi appropinquai guardingo. All’interno del piccolo recinto di sbarre vidi, rincitrullito dalla recente anestesia, un animale che sulle prime non riconobbi molto bene. Il Dottor Cispus, con una luce diabolica negli occhi, m’illustrò il suo lavoro: “Vede? E’ un procione sulla cui cute ho impiantato la criniera di un leone della savana. Fantastico! Da ora in poi quest’orsetto lavatore potrà agitare al vento con orgoglio la sua nuova folta zazzera”.   
     Quindi il pazzo seguitò a presentarmi i suoi inguardabili prodotti passando in rassegna le gabbie della parete: “Guardi quest’altro. Era un normalissimo scoiattolo; gli ho installato l’organo genitale di un toro della Catalogna; mi dovrà proprio ringraziare. E lo dovranno fare pure tutte le scoiattoline che da ora in poi finiranno nel suo talamo, eh, eh, eh…”. Era una visione indecente, ve l’assicuro.  
     Poi si accostò ad un’altra gabbia e schioccò le dita. Si fece avanti di un passo un timido tapiro. Sancta Mater Dei! Era il tapiro di Nanni Salonicco! Il Dottor Cispus si avvicinò ancora un po’ all’animale e gli sussurrò: “Coraggio… Uno, due, tre…”. Al ‘tre’ la povera bestia prese ad intonare un canto melodioso da applausi. Subito il Cispus tenne a precisare che aveva inserito nella strozza del tapiro le corde vocali di un usignolo! Era lo zoo degli orrori ed io ero senza parole. Il dottore seguitò ad illustrarmi le sue creazioni e mi fece vedere tre polli (erano quelli del vecchio McTillus) con ali da aquile reali; poi un babbuino con le corna di un cervo; un gorilla con la proboscide di un elefante; un gatto persiano infilato nel guscio di una tartaruga marina; e tante altre nauseabonde iniziative.
     “Lei è un mostro, Cispus”.
     “E Lei un ignorante, Zingo. Non capisce che il mio zoo fornirà al mondo intero nuove opportunità conoscitive e permetterà alla chirurgia di espandere a non finire il raggio delle proprie possibilità?”.
     “Cosa c’entra John Necchi in tutto questo?”.
     “Chi? Lo sceriffo? Mah… niente”. Forse allora il capo della polizia era davvero soltanto un allocco ottuso e credulone al pari di tutti gli altri montanari di quei luoghi.
     “Sì, infatti”, sottolineai con nonchalance. “Gliel’ho domandato giusto per scrupolo. In realtà… ehm… non ho mai minimamente sospettato della buonafede di Necchi”. Un colpetto di tosse per camuffare l’imbarazzo, quindi seguitai: “Immagino che il costume da grizzly sia servito pure per portare a compimento i vostri furti nelle case e nelle stalle di Bubba Mountain, no?”.
     “Certamente. Qui quel bestione ha la capacità di terrorizzare questi montanari con la sola forza della propria leggenda. Ad Appalàchio, qualora ce ne fosse necessità, bastava infilarsi dentro il costume per garantirsi piena libertà d’azione”.
     Incattivii allora il tono della voce: “Adesso, Dottor Cispus, Lei e il fido Appalàchio verrete con me al comando di polizia di Bubba Mountain”.
     “Come?”, disse il dottore con un risolino allusivo sulle labbra. “Soltanto noi due?”.
     “Perché? Chi altro v’è?”.
     Il Dottor Cispus gongolava e ridacchiava; poi, all’improvviso, proruppe in un urlo acutissimo: “Vaaaiii, Franz!!!”. Non ebbi neppure il tempo di guardarmi alle spalle: sentii soltanto arrivarmi sulla nuca una legnata d’inusitata violenza. Svenni all’istante.
     Nella mia vita ci sono perlomeno sette ore di vuoto. Probabilmente mi avevano somministrato anche qualche sonnifero.
     Quando ripresi i sensi ero adagiato su un lettino dello stanzone; gli animali nelle gabbie ringhiavano la loro rabbia; un alce era steso accanto a me e zampettava all’insù; il Dottor Cispus era presso un tavolo lì vicino e armeggiava con alcuni apparecchi chimici: refrigeranti a serpentino, bilance di precisione con picnometro, beute, cannelli ferruminatori, forno a muffola, treppiedi e becco di Bunsen. Era davvero fornitissimo. E anche un po’ esibizionista, giacché più che altro sembrava voler dare a vedere che di quella roba ne aveva in abbondanza. Se l’alce era legato al lettino con robuste cinghie, io ero tenuto fermo per le braccia da Appalàchio e per i piedi da un tale che ne sembrava il perfetto contraltare: era infatti questo un tipo grassoccio e tarchiato. Era senz’altro il Franz che mi aveva colpito al capo. Fuori doveva essere notte fonda e si udivano i rumori della tormenta.
     “Bene, bene, bene”, fece il Cispus strofinandosi le mani non appena si accorse che mi ero risvegliato. “Ecco il nostro amico Zingo in procinto di dare il suo contributo alla scienza”.
     Mi guardai intorno con sincera preoccupazione. Quello continuò: “Vede, quest’alce? Mi è venuto in mente di farla parlare… Ah, ah, ah… Sono un pozzo di idee, ah, ah… Mi vengono in mente così, ah, ah… Dal nulla, ah, ah… Mi scusi, ora mi ricompongo. Dunque, dicevo, dal momento che Lei mi ha colpito per la sua dialettica sicura e spigliata, mi sono detto: perché non inserire il lessico di questo Zingo nel povero e ignorante alce?”.
     Mi sentii in dovere di obiettare: “Ma il lessico non è un organo che si può espiantare, perdiana!”.
     “Silénzio! Sono io il luminare della scienza qua dentro! Prenderò le sue corde vocali e le immetterò nell’alce… Un po’ come ho fatto col tapiro e l’usignolo, insomma. E se non tace opererò senza anestesia!”.
     Ohibò! Qui le cose non si mettevano per niente bene. Com’erano lontani i tempi del Rifugio dello Scalatore Incompreso, dello strudel, dello jodel, del vin brulé, delle rime dell’oste… Il mio capace cervello era in fibrillazione alla ricerca di una scappatoia ma per il momento non mi veniva in mente niente. Il Dottor Cispus maneggiava adesso il suo amato bisturi e lo levava al cielo proclamando frasi sconnesse: “Il mio zoo sarà la gioia di tutti i bambini del mondo… Vedranno animali parlanti, tapiri cantanti, scoiattoli virilissimi… E il mio nome sarà scritto a caratteri cubitali nell’enciclopedia della scienza!”.
     Fu allora che capitò il miracolo; nel suo sproloquio il dottore si era avvicinato un po’ troppo alla parete delle gabbie e da una di quelle saettò fuori la proboscide del gorilla-elefante che come una frusta colpì il Cispus al braccio e gli fece volar via il bisturi di mano; poi si avvinghiò attorno al collo del luminare e lo strinse contro le sbarre come per soffocarlo. Fu il diversivo di cui necessitavo. Il tarchiato Franz allentò la presa intorno alle mie caviglie e fece per prestare soccorso al suo principale; veloce come un’antilope in fuga feci leva sulla schiena drizzando in aria le gambe e portandomele quasi all’altezza della testa; quindi le strinsi attorno al collo dello smilzo Appalàchio che mi reggeva le braccia. “Aahh, soffoco! Mi molli!”, vociava il pertica. “Eh, eh, eh…”, risi io in risposta. “Questo è per la Black Custom del ’70 tutta cromata che mi hai fatto distruggere contro quell’abete, malandrino!”. Così serrai forte i polpacci intorno al collo dell’allampanato e con un movimento fulmineo lo scaraventai lontano; la sua capriola lo portò a ruzzolare contro le gabbie degli animali i quali esultarono di gioia (o così almeno mi parve d’intendere dai loro versi). Appalàchio rimase immobile. Nel trambusto che ne seguì Franz riuscì a liberare il Dottor Cispus dalla stretta del gorilla-elefante ma non seppe evitare i miei sei cazzottoni che lo investirono in piena capoccia dall’alto in basso. Mentre il tarchiato andava a far compagnia ad Appalàchio nel dorato mondo dei sogni e mi crollava esanime tra i piedi, il Dottor Cispus fu lesto come un giaguaro (tra tutti quegli animali anche questi paragoni vengono automatici) a raggiungere il tavolo dei suoi strumenti chirurgici; pensavo volesse mettere mano a qualche ferro tagliente, invece quel pazzo pozzo di idee intendeva appropriarsi della mia Poseidon 48 che mi era stata tolta durante lo svenimento. Fortuna che riuscii ad anticiparlo afferrandolo per i pochi capelli grigi che aveva e tirandolo a me; ne seguì una vigorosa colluttazione in cui il gobbo lottò con inaspettata vigoria; niente comunque poté impedirgli di rimediare un paio di sganassoni che gli fecero perdere gli occhiali. Poi, mentre ci rotolavamo sul pavimento, avvinghiati come due crotali in calore, ci capitò di urtare il tavolo da lavoro del dottore; purtroppo cadde per terra anche il becco di Bunsen che era acceso e la sua fiamma subito avvampò a contatto con il pagliericcio di una delle gabbie. Mentre il fuoco prese a propagarsi con una velocità impressionante e gli animali berciavano irritati, il Dottor Cispus ebbe un ulteriore scatto di agilità, si liberò della mia presa ed infilò la scala a chiocciola che portava al piano superiore. Feci per seguirlo ma quando arrivai in cima alla scala il dottore mi chiuse in faccia la porta e fece scattare il chiavistello. Dannazione! Ero in gabbia, proprio come quelle povere bestie!
     Tornai giù di corsa nello stanzone; le fiamme erano già abbastanza alte. Andai alla saracinesca. “Ah, se solo riuscissi ad aprirla!”, pensai speranzoso. Niente di più facile, perché mi bastò girare la leva interna e tirarla su a forza; il Cispus si era semplicemente dimenticato di quella uscita secondaria. Spalancai il bandone ed uscii allo scoperto: avevo bisogno di respirare aria fresca. Era ancora buio ma ad est s’intravedevano i primi chiarori dell’alba. Nevicava ancora intensamente. Intanto il Dottor Cispus era salito sulla Lester Brubus, ne aveva avviato il motore e ora lo vedevo partire sgommando verso valle. Non potevo pensare a lui adesso. Piuttosto avevo la responsabilità di tutte quelle bestie. Tornai dentro la sala e principiai a spalancare le loro gabbie che avevano una semplice chiusura col paletto. Gli animali scodinzolarono via felici; allora col mio alpenstock che ero riuscito a recuperare in quel gran bailamme presi a tenerli uniti in gruppo come il pastore suole fare col suo gregge e a quelli più indisciplinati distribuii anche qualche bacchettata. Velocemente condussi la mia mandria fuori dalla casa ed ebbi l’ottima idea di farla entrare tutta nel furgone giallo ocra del Cispus. Lemmi lemmi gli animali vi salirono dentro; ognuno con le proprie forze. Ce la fece persino il povero scoiattolino che trascinava a fatica gli enormi testicoli taurini, lasciando sulla neve fresca un solco profondo. Poi, per miracolosa combinazione (mi servivano le chiavi del furgone), mi ricordai che giù nello stanzone degli orrori v’erano ancora quei due citrulli di Franz e Appalàchio. Con la Baita del Lupo Sfregiato ormai trasformata in un grande falò che rischiarava la montagna intera, mi precipitai di nuovo tra le fiamme e con sforzo immane riuscii a cavarne fuori quei due, anche perché entrambi avevano in parte ripreso i sensi e poterono collaborare. Li sistemai coi loro simili, cioè tra le bestie, seppure opportunamente ammanettati. Poi, con le chiavi strappate ad Appalàchio, ci fu finalmente la possibilità di mettere in moto quel bizzarro furgone e partire alla volta di Bubba Mountain. Anche se avevamo le catene, il tragitto fu estremamente periglioso e si dovette procedere con massima cautela; aveva smesso di nevicare e la luce del sole ormai sorto faceva brillare l’immacolato candore dell’intero paesaggio. Per tutto il viaggio di ritorno il tapiro deliziò le nostre orecchie con canti soavi e armoniosi.
     Così arrivammo quasi nelle vicinanze del Rifugio dello Scalatore Incompreso quando, appoggiato contro il tronco di un grosso abete, riconobbi la stazza enorme del grande grizzly i cui acuminati artigli fanno male. “Perdiana! Ma chi credi di fottere, bellimbusto!”.
     Fermai il furgone, presi il mio alpenstock e scesi. Quindi con andatura decisa mi inoltrai nel bosco fino ad arrivare vicino al bestione. E così il Dottor Cispus voleva fregarmi una seconda volta con l’abusato trucco del travestimento da grizzly, eh? “Guarda come finge di dormirsela, il gobbo traditore!”, pensavo tra me e me nell’avvicinarmi quatto quatto con passo felpato. Chissà dove aveva parcheggiato la Lester Brubus pur di depistarmi… Lo avrei presto saputo direttamente dalla sua voce. Strinsi l’alpenstock a due mani, lo sollevai sopra la testa e poi lo lasciai ricadere con forza sulla trippa del manigoldo. E così per altri tre o quattro colpi, tanto che quello protestò rumorosamente: “AAARGHHH!!!”. Gridai anch’io a tutta gola: “Maledetto Dottor Cispus! Chi credevi di ingannare? Esci di lì! Vieni fuori! Combatti, pazzo luminare da strapazzo!”; poi, mentre quello adirato fece per alzarsi, seguitai: “Dov’è la cerniera? Avanti, dove l’hai nascosta?”.
     Fu allora che un brivido mi colse in tutta la persona: quel grizzly non aveva nessuna chiusura lampo; né sul dorso né altrove.
     Era il grizzly vero! E mi spettinò con la furia del suo ruggito: “AAAAAARRRRGGGGGHHHHH!!!”. A monte sentii finanche staccarsi una slavina.
     Pensavo che, dopo tutti gli avvenimenti di quei giorni, non avrei avuto la forza di scappare; e invece, una volta di più, sorpresi me per primo. Corsi alla velocità di un cane da slitta quando non ha da tirare la slitta. E fui sul furgone prima che il grizzly (tutt’altro che vegetariano) si raccapezzasse del tutto su chi lo avesse svegliato.
     Poi, per fortuna, non accadde più niente di clamoroso fino al nostro ritorno in Bubba Mountain.
     Il rubicondo Dende fu così felice della risoluzione del caso che mi offrì di prolungare il mio soggiorno in montagna per un’altra settimana; tutto a spese dei contribuenti. Accettai. Oltretutto per lui si trattava di aver messo a segno un bel colpo presso l’opinione pubblica; c’era da giurare che lo avrebbe fatto tornare a proprio vantaggio nel momento opportuno, vale a dire durante la prossima campagna elettorale. Quando però fu il momento di congedarmi da lui con una stretta di mano, lo vidi cortesemente declinare e tirare indietro il braccio: “Non se ne offenda, Zingo, ma ho la clavicola spezzata in tre punti e un’ingessatura di fresco sotto la giacca”.
     “Ah!”, feci. “Com’è successo?”.
     “Non ci crederà ma mentre ero al volante della mia utilitaria una nonnina del paese mi ha attraversato la strada in un punto in cui non avrebbe dovuto e io per evitarla sono andato a schiantarmi contro un muro”.
     “Beh… Perlomeno la nonnina le sarà riconoscente”.
     “Non credo, sa? Purtroppo ho cercato di evitarla ma mica ci sono riuscito! Prima di impattare violentemente contro il muro infatti ho travolto la vecchia mandandola a gambe all’aria. Adesso è ricoverata in ospedale tutta stroncata”.
     Il Dende! Non smentiva la sua fama!
     Mi dispiaceva semmai non aver assicurato alla legge il malefico Dottor Cispus al quale, comunque, davo appuntamento in futuro. Eravamo entrambi di Giudatown e senz’altro avremmo avuto occasione di rincontrarci.
     Adesso era giusto godere appieno del successo riportato e di aver restituito serenità a quelle montagne. Alla faccia di quel mandriano di ohn Necchi che ora aveva tutto il tempo per rodersi dall’invidia! La pace era tornata e tutti gli animali, seppure un po’ modificati nella loro struttura genetica, erano stati riconsegnati ai rispettivi padroni. No… ehm… a dire il vero non proprio tutti. Già. Quella mattina, prima di rientrare in Bubba Mountain col bestiame, fermai il furgone che ancora eravamo in mezzo ai boschi e alla neve alta. Si trattava di una piccola, innocente vendetta trasversale. Aprii il portellone posteriore del furgone e feci scendere il tapiro canterino. Di chi era quell’animale? Perfetto, era di Nanni Salonicco. Che cosa mi aveva fatto Nanni Salonicco qualche sera avanti? Esatto, mi aveva ustionato il viso con un paiolo di tortellini in brodo. Non si fa così.
     Il tapiro mi guardò senza capire. Io allungai il piede e PAM! Gli assestai un bel pedatone nel sedere col quale lo avviai verso la boscaglia. E quello, assai felice di non rimettere piede nel salotto del miope Nanni, partì trotterellando. Poi, appena fu là in mezzo agli abeti, intonò il suo melodioso canto da usignolo.

(fine dell'episodio)

Nessun commento:

Posta un commento