mercoledì 25 gennaio 2012

ZINGO n° 3 "Grosso guaio a Giudatown" (4a parte)

(...segue...)

     Entrai. Eva Margutte, bella al di là del conoscibile, scalza e languidamente avvolta nella sua bianca vestaglia di seta, sedeva su un divanetto; con una mano si stirava una ciocca dei biondi capelli fino a portarsela alle labbra e, ridacchiando furbescamente, dava l’impressione di divertirsi un mondo: “Piacere, tesoro”.
     “Ehm… Signorina Margutte, buonasera…”.
     “Dovevi essere davvero disposto a tutto pur di vedermi se ti sei fatto beffe del mio Fred e di Clancy”, fece lei ridendo.
     “Clancy? Ma chi è?”.
     “Il barman. Non voleva credere che quello che ti eri inventato era tutto vero. Ci è rimasto malissimo, ah, ah… E’ un amico di Fred e gli sembrava strano non sapere niente. Io ti ho retto la parte perché mi sembrava troppo divertente… ah, ah”.
     “Mi dovete scusare, signorina Margutte, per questa intromissione. Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Ho bisogno del vostro aiuto”.
     “Oh, davvero? Dimmi tutto, Dino” rispose la maiala… No, ehm, intendevo: rispose la maliarda. “Anzi, vieni qui a sederti accanto a me”, fece lei picchiettando con la mano aperta sul divano, facendosi appena un po’ da parte e tirando a sé le gambe seminude.
     Perdiana! Era difficile mantenere un distacco professionale in quel frangente. Eva Margutte rischiava di mandare a gambe all’aria il mio consueto aplomb. Io invece rischiavo di mandare a gambe all’aria direttamente lei. Tuttavia con sforzo indicibile provai a resistere alla compiacenza del suo sorriso, alla profondità del suo sguardo e… come negarlo, anche al volume impressionante delle sue tettone.
     “Signorina Margutte…”.
     “Chiamami Eva, Dino”. Un classico che c’è in tutti i film. Magari con nomi diversi.
     “Ehm… sì… Dunque, Eva, in realtà io sono un investigatore privato e sto svolgendo un’indagine molto perigliosa. Conoscete il fachiro Baita?”.
     “Pegus! Ma certo! Siamo buoni amici!”.
     Eravate buoni amici”.
     “No, lo siamo ancora, mica abbiamo litigato”, fece con adorabile ingenuità. Scusate, ma a quel punto io di Eva Margutte ero già innamorato perso.
     “Purtroppo, Eva, il nostro comune amico Pegus Baita, persona davvero eccezionale sotto il profilo umano”, (meglio abbondare, mi dissi), “è crepato non più tardi del tardo meriggio di ieri”.
     “Nooo!”, fece la maggiorata portando una mano alla bocca e una al cuore (un cuore enorme, giudicando così a occhio, ecco…).
     “Purtroppo sì. Se ne va un grande uomo e un bravissimo fachiro”. Sì, ecco, mi sembrava tutto sommato un bell’elogio funebre.
     Gli occhi di Eva presero a inumidirsi. Era ancora più bella: “Ma com’è successo?”.
     “Sventuratamente non se ne sa ancora molto, ma pare che il Baita sia caduto nella trappola della malavita; sembra che lo abbiano ucciso in casa con un agguato vile e premeditato. Ah, questi maledetti malavitosi! Dio, come li odio!”.
     “Be’, anche il mio Fred Santapace purtroppo è del giro”, disse lei rassegnata e sinceramente sofferente.
     “Sì, ma non tutti li odio, eh? Cioè, qualcuno serio e rispettabile si trova sempre alla fine, via…”, dissi per ammortizzare la gaffe. Poi seguitai: “Da quanto vi conoscevate con Pegus Baita?”.
     “Da anni”, riuscì a dire tra i singhiozzi. “Facciamo lo stesso mestiere… Cioè, voglio dire: in rami diversi, però entrambi siamo intrattenitori… Spesso abbiamo fatto serate assieme. Sai, a lui toccava aprire gli spettacoli con i suoi numeri: Pegus riscaldava l’ambiente; io, più tardi, lo portavo a completa ebollizione…”.
     “Certo, immagino…”.
     “Povero Pegus, era così gentile con me…”.
     “Certo, immagino…”.
     “Non posso credere che sia stato ucciso. Ma da chi? La malavita? Fred non mi ha mai fatto capire che Pegus fosse in pericolo”.
     Era straziante insistere con quella creatura in disarmo ma il mestiere dell’investigatore privato purtroppo impone certi obblighi: sennò uno va a vendere frutta al mercato. “Eva, quanto tempo è che non vedevate il Baita?”.
     “Due giorni, credo; sì, lui apriva una mia serata al Night Bar Biturici, qua vicino. Spesso, te l’ho detto, siamo in cartellone insieme negli spettacoli del quartiere. Ma comunque, siamo un gruppo di artisti sempre in contatto tra di noi, indipendentemente dal locale dove ci esibiamo…”.
     “E voi, Eva, non avete notato particolari apprensioni in Baita di recente? Era il solito fachiro scanzonato che tutti conosciamo?”, buttai là un po’ a caso. “Non vi ha confidato alcuna preoccupazione?”.
     “No, non mi pare… Anche se l’ho visto forse un po’ sotto pressione in quest’ultima settimana… Ma pensavo fosse stress da lavoro. Sai, camminare tutti i giorni sui tizzoni ardenti o stendersi su un letto di chiodi alla lunga può sfinire…”.
     “Certo, immagino…”. Era il momento di una domanda più precisa: “Eva, vi dice niente il nome Les? Il Les che ho in testa io ha senz’altro a che fare con la malavita organizzata di Giudatown e in particolare con quella di stanza qui, nel quartiere dell’Old Begallus”.
     “L’unico che mi viene in mente è Les Ciattanuga; appartiene al clan degli Abbatecola, lo stesso con cui anche Fred ha a che spartire”.
     “E il nome Larry?”.
     “Un Larry lo conosco molto bene: è Larry Bronco detto ‘Tartaglia’”.
     “Perché è detto ‘Tartaglia’?”.
     “Perché è balbuziente. Spara più sillabe che raffiche di mitraglietta!”. Poi, con un sobbalzo di tette: “Aspetta, Dino. Tartaglia in effetti è stato molto addosso a Pegus di recente. Lui e il suo compare… come si chiama… ah sì, Ganascia! Tutti e due, a ben pensarci, gli sono stati appresso parecchio ultimamente”.
     “Se ne conosce il motivo?”.
     “La cosa che so è che ogni tanto sfruttavano Pegus per aiutarli in qualche traffico. Sai, lui ha la capacità di ingoiare e tenere nel suo stomaco oggetti anche piuttosto grandi. So che a volte il clan si è servito di lui come ‘cassaforte’, non so se mi spiego…”.
     Perdiana! Queste sì che erano rivelazioni interessanti! Eva Margutte aveva tolto molti veli alla verità nascosta. Ora le rimaneva da togliere solo la vestaglia per farmi pienamente felice. Le presi la mano nella mia e la rassicurai: “Eva, vi conosco come donna dalle grandissime popp… ehm, intendo dire… donna dalle grandissime qualità; siete forte e so che saprete tenere un segreto: non riferite niente di quanto ci siamo detti stasera. Non parlate neppure con Fred, mi raccomando. Per il resto lasciate fare a me: troverò quel cane che ha ammazzato l’amico Pegus! Senza coinvolgervi, lo giuro”. Mi tolsi di tasca un fazzoletto pulito e glielo passai: “Su, Eva, adesso asciugatevi questi splendidi occhioni; dovete pensare al vostro show; sono quasi le 23! Ditemi, via: quale spettacolo portate in scena stasera?”, chiesi con frivolezza per allentare la tensione.
     “Be’, stasera mi spoglio e poi faccio un numero con le aste del biliardo…”. Andò un po’ avanti nei dettagli tant’è che quando la salutai pensai tra me e me: “Ma tra Pegus Baita ed Eva Margutte chi è in realtà il vero fachiro?”. Mah, misteri della natura!
     Appena ripassai davanti al bancone, Clancy fece la smorfia del pitbull mentre con uno strofinaccio puliva un bicchiere. Non resistetti alla voglia di stuzzicarlo: “Ah, barman! Dice Eva se la prossima volta ti puoi fare i cazzi tuoi! Sai, preferiamo incontrarci senza chiedere il tuo permesso”. Poi mentre guadagnavo l’uscita del bar, aggiunsi ad alta voce: “Ci piace starcene tranquilli in santa pace, cafone!”.
     “Dici a me?”, mi fece a muso duro un tizio vestito di velluto bordeaux che entrava proprio in quel mentre nel locale e addosso al quale ero appena andato a cozzare.
     “Prego?”, feci dopo essere rimbalzato contro la di lui mole.
     “Mi hai chiamato per nome dandomi del cafone. Che cosa diavolo vuoi?”, chiese il tale dalle spalle larghe digrignando i dentoni.
     “Io? Io non ho chiam…”.
     “Hai detto ‘Santapace cafone’ e mi sei venuto a sbattere addosso: devo dedurne che sei un amante del pericolo”.
     Santa Madonna! Il Fred Santapace in persona! Non conveniva di certo fare il galletto. Detti un’occhiata al bancone dove il rude Clancy aveva posato il suo strofinaccio ed ora si gustava la scena con curiosità; eravamo sulla soglia del bar e il Santapace non mi cedeva il passo; cercai la formula migliore per scusarmi. Del resto, lo dice anche quel vecchio adagio: non menare il can che dorme; potrebbe svegliarsi piuttosto risentito. “Mi scusi, non stavo guardando dove mettevo i miei maldestri piedi… Mi perdoni, la prego, gentile signore”.
     “Mm… Se è così… Ora sgomma, ingombri il passaggio”.
     “Senz’altro. Ero venuto qui perché pensavo ci fosse lo spettacolo del fachiro Pegus Baita e invece c’è l’esibizione di una certa Eva Margutte, decisamente la più troia di tutte. Ma io non ho tempo per queste cose. Arrivederci”.
     Feci l’atto di uscire in strada ma l’orgoglioso Santapace mi afferrò bruscamente per un braccio, carico di rabbia. Fortunatamente, il fumatore di zampirone si fece sentire di nuovo: “Ooooh! La vuoi chiudere quella dannata porta, imbecille!”.
     “Certo che chiudo. Cos’è? Hai paura che entrino le zanzare?”. Mi divincolai dalla presa del gangster e, con buona pace di Fred Santapace, uscii finalmente dal Bar Abba, infimo locale in cui ritenevo che difficilmente vi fosse qualcuno in grado di capire la sublime arte di Eva Margutte.
     Mi avviai per due passi a piedi. All’angolo di Gibbon Street uno strillone del Gazzettino di Giudatown strillava (era pagato per questo, no?): “Edizione straordinaria del Gazzettinoooo!!! ‘Assassinato noto chirurgoooo!!! Chi sarà statoooo? La polizia brancola nel buioooo!!!’ Avanti, signori, comperate il Gazzettinoooo!!!”. Ne presi una copia.
     La pioggia non demordeva. Un vento freddo mordeva addirittura. Trovai riparo sotto la tettoia di un cinema a luci rosse, l’Arnolfus. Sfruttai quell’attimo di tranquillità per riflettere sugli sviluppi del caso e per dare un’occhiata all’articolo sul dottor Latimer.
     Dunque: se il Gazzettino non aggiungeva particolari rilevanti a ciò che già io avevo potuto ricavare sul luogo dell’omicidio (se non quello che il dottore prima di rimanerci secco aveva senz’altro effettuato un intervento chirurgico nella saletta operatoria di casa sua), in realtà la testimonianza di Eva Margutte sistemava tessere importanti all’interno di quell’intricato puzzle. Adesso perlomeno si delineava il motivo per cui Pegus Baita era stato eliminato e perché fosse tanto prezioso il suo cadavere. Le circostanze andavano poi approfondite meglio ma si poteva comunque arguire che qualcuno del clan degli Abbatecola (con tutta probabilità il Ganascia) era la persona che aveva ucciso il fachiro, la stessa che poi aveva chiamato me per sbaglio: nella telefonata infatti egli pensava di rivolgersi ad un collega del clan, Les Ciattanuga, e nominava Larry Bronco detto Tartaglia e persino il dottor Latimer: tutti, come dire, compagni della scuderia-Abbatecola... Ora: senza dubbio il povero Pegus al momento della morte teneva in corpo un qualche oggetto importante che stava scatenando le brame di diversi uomini di malaffare. Ecco come si inserisce a questo punto la figura del dottor Latimer: il chirurgo, la notte stessa dell’omicidio doveva intervenire sul corpo del Baita per recuperare il misterioso tesoro. Qualcuno però a monte si era intrufolato nel meccanismo mandando a rotoli i piani del clan. Ma chi? Se, come inizialmente avevo pensato, fosse stato per davvero quel Rocco Roller, per quale motivo egli sarebbe poi corso col cadavere dal Latimer se era vero che il chirurgo lavorava dietro mandato degli Abbatecola, ovvero dei rivali? E i due sgherri della ganga di Vanv? Come s’incastravano in quest’oscura vicenda? Ma soprattutto: dov’erano andati a finire?
     “Non fare mosse avventate, baffo”, minacciò una voce roca alle mie spalle mentre la canna di un Navinger mi premeva contro la nuca. “Sali in macchina e non fiatare. Svelto!”. Il tizio mi spinse avanti lungo il marciapiede mentre lentamente si aprì lo sportello di una Pirrowet color canna di fucile parcheggiata lì accanto. Appunto: ecco dov’erano finiti i due sgherri di Vanv.
     “Stavo in pena per voi, ragazzi”.
     “Zitto. Sali in macchina”.
     Montai sul sedile posteriore della Pirrowet. Al volante c’era il Piccione mentre accanto a me, fucile spianato, era venuto a sedersi Otto il Picciotto.
     “Dove si va?”, chiesi senza far vedere che me la facevo nei pantaloni.
     “Da nessuna parte. Ce ne stiamo qui buoni buoni, a motore spento. Dobbiamo parlare. Parlare e ancora parlare. Tu ne hai di cose da dirci, no?”.
     “Si capisce. Che cosa v’interessa sapere?”.
     “Dove sono le rubelliti?”.
     “Quali rubelliti?”. Non finii di esporre il mio dubbio che un manrovescio mi fece volar via gli occhiali. “Ma che maniere sono queste?”, protestai recuperando e rinforcando subito le mie lunette.
     “Ascolta, baffo. O ci dici subito dove hai messo le rubelliti del fachiro oppure lo schiaffo che t’ho dato sarà solo il primo di una lunga serie”.
     “Ascoltate voi, mentecatti. Vi pare che se fossi in possesso di queste rubelliti me ne starei qui a bighellonare nel quartiere dell’Old Begallus, il più malfamato di tutta Giudatown, difronte ad un cinema porno? E poi il film in cartellone l’ho già visto”. Avevo forse trovato la chiave giusta per discutere alla pari.
     “Dicci che cosa cerchi, Kazz”.
     “Ma quale Kazz? Il mio nome è Zin…”.
     Il Piccione, fin lì una semplice comparsa, mi rifilò un nocchino secco sulla testa: “Inutile negare. Il garzone del negozio in Via Spruce ha cantato”. E’ vero, mi ero dimenticato quel particolare: Tegolo non aveva retto alle angherie dei due vanveri. Potevo sfruttare quell’identità fallace.
     “Ebbene sì, mi avete scoperto: sono proprio Fausto Kazz”.
     “Per chi lavori? Sei un emissario di Peter Fauna?”.
     Peter Fauna? E quest’altro chi era? Comunque, chi se ne fregava: ormai avevo poco da perdere. Meglio proseguire nel bluff: “Certo. Mi avete scoperto: sono proprio un emissario di Peter Fauna”.
     “E non ce lo potevi dire subito?”.
     “Sai com’è! Il Fauna non ama troppa propaganda…”, andavo letteralmente alla cieca. Alla Ganzarolo, insomma.
     “Maledetti Abbatecola!”, disse il Picciotto serrando quella sua mascella di tutto rispetto. “Ce l’hanno fatta sotto al naso anche stavolta!” e dette un pugno sul lunotto per scaricare tutta la rabbia.
     “Via, Picciotto, non t’incazzare...”, stigmatizzai.
     “Ehi! Come fai a sapere il mio nome?”.
     “Se permetti”, risposi con prontezza, “m’informo puntigliosamente su chi mi scarica addosso pallettoni da caccia. Piuttosto”, dissi poi tentando di far parlare i due vanveri in modo da agguantare al volo qualche informazione preziosa, “quello che non capisco è come mai ve la siate presa tanto col sottoscritto”.
     “Era da giorni che stavamo dietro al fachiro. Lui lavorava per gli Abbatecola ma stavolta aveva deciso di fare il grande salto e passare dalla nostra parte. Sai, il Baita non era contento della sua percentuale e voleva alzare un po’ il tiro. Così ad inizio settimana venne da noi tramite un parente che ha a Vanv e ci disse che aveva nello stomaco un bel po’ di rubelliti. Ganascia e Tartaglia, due del clan, gestiscono il contrabbando delle pietre preziose che fanno arrivare dalle miniere dell’isola di Kiko Puntar. Poi si servono di gente abile e insospettabile come il Baita per nascondere e trasportare la merce. Per noi l’occasione di rovinare i piani dei nostri rivali era davvero ghiotta; e poi uno con le capacità di Baita ci avrebbe fatto assai comodo anche in futuro. Ieri sera avevamo l’appuntamento decisivo col fachiro per la consegna delle rubelliti. Pegus ci aveva avvertito che gli Abbatecola avevano fiutato qualcosa e che gli stavano addosso, così quando non si è presentato dove convenuto, sotto casa sua davanti al negozio di grancasse, ci siamo insospettiti. Abbiamo atteso a lungo poi io sono salito su, ho sfondato la porta e sono entrato nell’appartamento; l’ho rivoltato da capo a piedi ma di Baita e delle rubelliti nessuna traccia. Così siamo rimasti in macchina lì in Via Spruce a studiare il da farsi”.
     “E a quel punto sono arrivato io, mister Kazz, grande emissario di Peter Fauna”. Ormai ero pienamente entrato nella parte.
     “Già. Sei entrato nel negozio e sei sparito nel retrobottega con quel demente del noleggiatore. Fin lì potevi benissimo essere un normale cliente ma quando ti abbiamo visto uscire dalla bottega e infilare su in casa di Baita e con le luci accese frugare fra tutta la sua roba, abbiamo realizzato che tu avessi a che fare col clan degli Abbatecola. Appena te ne sei andato a piedi lungo la via, siamo entrati nel negozio e abbiamo malmenato quel ragazzotto perché ci dicesse quello che sapeva”.
     “E quando, dopo aver prestato soccorso a Tegolo, sono uscito dal negozio per la seconda volta mi avete scaricato addosso un paio di fucilate. Tanto per fare un po’ di tiro al piccione, eh Picciotto?”. Nonostante il momento difficile, giochi di parole à gogo.
     “Eh, eh, ci perdoni, vero? Di solito Fauna ci avverte delle mosse dei suoi uomini. Come mai stavolta non ci ha detto nulla, eh Kazz?”, s’intromise il Piccione.
     “Sai com’è! Il Fauna è un po’ così, ecco…”.
     Un po’ così come?”. Impiccione il Piccione, perdiana!
     “Sì, hai visto… un po’ così, insomma… no? Tutto genio e sregolatezza, diciamo…”.
     Il Picciotto e il Piccione si guardarono perplessi. Non lasciai loro il tempo di farsi venire ulteriori dubbi e attaccai di nuovo: “Comunque stavolta Peter mi sente. Insomma, io sono stufo di andare a fare queste commissioni alla carlona e rischiare la pelle solo perché lui si è dimenticato di avvertire i miei amici di Vanv, ecco! No, ragazzi? Dico male?”.
     “E quindi stai cercando anche tu il Baita?”.
     “Sì”.
     “E delle rubelliti non sapevate niente tu e il tuo capo?”.
     “Macché”.
     “Allora le solite questioni di pizzo, immagino? So che continuate a taglieggiare tutti gli impresari dello spettacolo e anche i singoli intrattenitori”.
     “Esatto”. Finalmente avevo capito di che cosa si occupava ‘sto benedetto Peter Fauna: estorsioni a piè sospinto.
     “E che cosa ci facevi nel negozio di grancasse?”.
     “Be’, taglieggiavo anche loro; il Gropp non è un impresario vero e proprio ma pure lui ha qualche introito dai concerti dei percussionisti della città”. Una balla colossale che necessitava di un robusto puntello: “D’altronde sapete, ragazzi: è più forte di me. Il racket è un po’ come il gioco d’azzardo: mi prende la mano”.
     Sghignazzarono entrambi. Poi Otto il Picciotto proseguì con le sue curiosità: “E come vanno gli affari? La gente paga?”.
     “Ci mancherebbe altro”.
     “E a chi si oppone all’estorsione?”.
     “Gli procuriamo una distorsione. Spesso un gomito o una caviglia”.
     Sghignazzarono di nuovo. Ormai mi avevano in simpatia. Magari tra un po’ ci scappa pure una pizza tutti e tre insieme, ebbi a pensare. Sì, stasera pizza invece che pizzo, eh, eh, eh...
     Tornai poi a bomba sull’argomento più importante: “E adesso che si fa? A quanto apprendo, sia io che voi abbiamo interesse comune a ritrovare quel dannato fachiro del Baita”.
     “Certo! Anche se dubito lo si possa trovare ancora vivo. Mi sa tanto che gli Abbatecola abbiano intuito il suo voltafaccia e gliel’abbiano fatta pagare”, osservò il Piccione dall’alto della sua esperienza.
     Mi dimostrai subito pieno di iniziativa e disponibile alla collaborazione: “Comunque, ragazzi: per qualche giorno ho l’incarico di continuare a bazzicare quest’angolo di quartiere; se dovessi apprendere qualche novità, se dovesse saltar fuori qualcosa...”.
     “Vedi, Piccione?”, s’intromise Otto. “Con Fauna si fanno sempre buoni affari; anche perché lui sa sempre accontentarsi delle briciole, non reclama mai la fetta più grossa della torta. Non è forse così, Kazz?”.
     “Sì, ve l’ho detto: Peter Fauna, tutto genio e sregolatezza”.
     “Nelle prossime ore sorveglieremo anche noi la zona del Bar Abba, grosso modo gli isolati che stanno tra Farf Road e Via Pettegolezzi. E’ qui che il clan degli Abbatecola si muove con maggiore attivismo e magari ci può capitare un colpo di fortuna. Se scopri qualcosa d’interessante circa le rubelliti, basterà che tu ti faccia notare in zona; per noi è meglio non uscire troppo allo scoperto. Sai, giochiamo fuori casa”. 

(...continua...)


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