domenica 22 gennaio 2012

ZINGO n° 3 "Grosso guaio a Giudatown" (3a parte)

(...segue...)

     TRIIIILLLL!!!! TRIIIILLLL!!!! Purtroppo la sveglia funzionava bene quanto il pendolo e alle 5 spaccate di quella piovosa mattina mi destò col suo insopportabile trillo. D’altronde la levataccia mi serviva ad essere a casa del Latimer molto presto, nella speranza di trovare il dottore piuttosto impreparato nella costruzione di un eventuale alibi. Il tempo di svolgere una rapida operazione di toletta, infilare il mio spolverino ed ero già al volante della Scaberwilly. Il temporale del giorno avanti cedeva il testimone ad una pioggia meno violenta ma sempre ostinata. Il dottor Latimer, mi aveva detto Mini, abitava al numero 15 di Viale Barracuda, nel quartiere di Trentadindos. Stradario alla mano, anticipando gli ingorghi che di lì a un paio d’ore avrebbero fatto della città la più trafficata del globo terracqueo, riuscii ad arrivare a destinazione assai presto. Viale Barracuda presentava villini in serie, ognuno con un piccolo parco. Il numero 15 frapponeva una bassa ringhiera tra la strada e il giardino del Latimer; non sarebbe stato un grosso problema oltrepassarla di slancio. Semmai era tutta da considerare l’incognita ‘cane da guardia’. Latimer ne teneva forse uno? Ma lo Zingo non è nato ieri e porta sempre con sé un kit completo di polpette per cani al retrogusto di cicuta (basta che il mastino ne assaggi appena e finisce stecchito a gambe all’aria, eh, eh, eh). Qualcuno di voi – giusto qualche animalista da strapazzo – troverà crudele il mio modus operandi ma, diciamocelo, questi cani da guardia dalle zanne sempre in bella mostra sono un’autentica dannazione. A uno poi che fa il mio mestiere e a cui capita spesso di violare proprietà private, d’intrufolarsi in abitazioni altrui e di scavalcare recinzioni d’ogni genere, ecco che il cane da guardia si pone un po’ come l’antonomasia per antagonista. Anzi al contrario: l’antagonista per antonomasia. Sì, suona meglio così. Tuttavia, quando saltai la ringhiera, nessun cocker mi abbaiò contro quella mattina. Buon per lui.
     Era mia intenzione cogliere di sorpresa il dottore, per cui evitai di suonare il campanello. C’era poi un’altra eventualità che m’invitava alla cautela: come l’avrei messa se colui che era entrato in possesso del cadavere di Pegus Baita per un qualche motivo non fosse riuscito a portarlo dal Latimer entro la sera del giorno avanti e si fosse invece presentato col suo macabro fardello proprio a quelle grigiastre luci del primo mattino? Rischiavo di imbattermi in un convegno di criminali al numero 15 di Viale Barracuda, altroché! Era pertanto necessaria la massima circospezione; fu così che ispezionai il villino dal giardino girandovi tutto intorno. All’interno nessuna luce accesa. Nessun rumore. Al pianoterra per la verità le persiane erano aperte, la qual cosa lasciava presumere che il chirurgo o un suo familiare fossero già in piedi. Ma accostandomi al vetro e sbirciando dentro per lunghi minuti non ravvidi alcun movimento. A quel punto sì, avrei fatto bene a suonare il campanello. E fu ciò che feci.
     DLIN-DLONG.
     Tutto tacque.
     DLIN-DLONG.
     Niente. Mi misi di nuovo appiccicato al vetro ma tutto rimaneva immoto. Per scrupolo provai l’ultimo DLIN-DLONG ma non sortì nessun effetto. Benissimo: con la prossima mossa avrei trovato anche il modo di divertirmi. Mi chinai su un’aiuola del giardino ed estrassi a forza una delle pietre conficcate per metà nel terreno a recintare un cespuglio di lavanda e con quella in mano tornai svelto ad una delle finestre del villino. Poi, un ampio movimento rotatorio del braccio e… CRASSHH!!! Il vetro andò in frantumi (che soddisfazione! Fin da ragazzo mi è sempre piaciuto spaccarli! Quelli degli altri, s’intende…). Estrassi il mio revolver e mi misi in attesa.
     Macché. Nessuna reazione a quel frastuono. Non mi restava che introdurmi all’interno di casa Latimer e appurare che cosa stesse alchimiando il chirurgo. Forse non poteva rispondere perché troppo impegnato a sezionare il cadavere del Baita per poi rivenderne a caro prezzo i suoi organi. Maledetto, gliel’avrei fatta pagare cara a quel macellaio! Saltai dentro l’abitazione attraverso la finestra rotta e accorto come un coyote che si sia accorto di essere a corto di provviste presi a perlustrare le varie stanze in cerca di qualche traccia. Grande gusto nel mobilio, non c’è che dire. Preziosi quadri alle pareti. Tappeti importanti. Senz’altro le ruberie, i loschi intrallazzi e, a quanto si diceva, la protezione degli Abbatecola avevano garantito al dottore una vita di tutto rispetto. M’introdussi poi in un’ala laterale del villino che aveva tutta l’aria di essere lo studio del chirurgo. C’era un piccolo salottino che pareva quasi la sala d’aspetto di una clinica di lusso, con poltroncine in velluto e un tavolinetto basso oberato di riviste specialistiche; sulla parete centrale si apriva una porta. Girai la maniglia ed entrai con la rivoltella sempre bene stretta in pugno: mi trovai così nello studio del nostro benamato Luciano Latimer.
     Il dottore era al suo scrittoio; teneva tra le mani un giornale e mi fissava con occhi sgranati e bocca spalancata. Ci guardammo immobili per almeno un minuto e 35 secondi. Poi decisi che il reciproco stupore doveva cedere spazio alle reciproche presentazioni: “Salve. Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e mi deve scusare se pochi minuti or sono le ho sfondato una finestra con un pietrone”.
     Ma quello nulla: occhi sgranati e bocca spalancata.
     “Dottor Latimer: la vedo sorpreso di ricevere visite a quest’ora. La vedo addirittura esterrefatto, a giudicare dalla sua espressione”.
     Silenzio tombale. Neppure un ciglio del dottore osò battere un colpetto.
     “Dottore?”, chiesi per l’ultima volta, decidendomi ad avanzare nella stanza di qualche passo. Poi buttai l’occhio casualmente alla scrivania del Latimer e vedendo un bicchiere con un po’ d’acqua, realizzai in un baleno. “Santa Madonna!”, pensai infatti, “Il dottor Latimer è stato ucciso”. E, ne ero convinto, quella sua espressione inebetita era chiaramente il segnale di un avvelenamento. Sicuramente. I casi erano due: stricnina o cicuta. “Sì, sì”, mi dicevo mentre mi avvicinavo, “questo è proprio il caso dell’avvelenamento classico. Lo si deduce dagli occhi sgranati, dalla bocca spalancata. Sì, sì. Vedi, gliel’hanno somministrato nel calice che stava sorseggiando e poi…”. Il tempo di girare intorno al dottore e dovetti riconoscere che ero orientato su una deduzione sbagliata: il povero Latimer aveva infatti uno dei suoi bisturi conficcato nella collottola. Altro che stricnina o cicuta! Che si trattasse dunque di un banale suicidio? No, conclusi dopo venti minuti di cogitabonde riflessioni; l’ipotesi, pur suggestiva, che il dottor Latimer si fosse piantato una lama nel collo e poi si fosse messo a leggere una rivista in attesa del decesso non stava in piedi. Tornai dunque a propendere per la tesi dell’omicidio.
     Detti infine un’occhiata al giornale che il dottore stava leggendo; era un numero di ‘Cespugli’, un periodico, di cui un tempo ero stato felice abbonato, che si occupava di satira dei costumi (anche quelli da bagno). Era una rivista che pubblicava cazzate in serie, insomma. Ricordo che vi trovava spazio anche un fumetto sulle avventure di Ganzarolo, un povero cieco che prendeva cantonate in continuazione. Ma la cosa divertente era che queste cantonate le prendeva in senso letterale giacché, rifiutando la guida di un pastore tedesco, andava sempre a sbattere il muso contro i cantoni e gli spigoli degli edifici. Strappai la rivista dalle mani inermi del defunto Latimer e volli controllare se, dopo tanti anni, quel fumetto venisse ancora pubblicato. Sì! Eccolo! La striscia, disegnata dal grande Alveus, continuava ad avere la consueta collocazione a pagina 7: ecco, in poche feroci vignette, Ganzarolo avanzare lungo il marciapiede, evitare per miracolo un palo della luce, scansare un bidone dei rifiuti, poi aumentare d’improvviso il passo e SBAM! Ah, ah, ah… la solita craniata contro lo stipite di un portone. Che spasso! Ah, ah, ah… che risate!
     Di nuovo però gli occhi sgranati di Latimer mi ridestarono dal breve viaggio nella memoria: lo sguardo macabro della morte metteva i bastoni fra le ruote al feroce sarcasmo di ‘Cespugli’ e alle facezie di Alveus. Che peccato! Oltretutto ridacchiare a due passi da un cadavere ancora caldo era disdicevole. Feci per rimettere sul tavolo la rivista, quando notai che con un pennarello rosso era stata aggiunta sulla copertina una scritta piuttosto stramba: “IL DOTTOR LATIMER SI E’ SGANASCIATO DALLE RISATE”. In effetti un pennarello rosso era proprio lì sul tavolo. Difficile che il Latimer si fosse appuntato quella frase parlando di sé in terza persona. No, il messaggio era senz’altro opera dell’assassino. Che cosa significava tutto ciò? Era un codice? C’era forse, nello ‘sganasciarsi dalle risate’ del dottore, un riferimento alla comicità di ‘Cespugli’? O magari l’omicida era un umorista che intendeva chiosare il suo efferato delitto? Una provocazione? Una sfida? O piuttosto una firma?

     Ebbene quelli furono i medesimi quesiti che mi accompagnarono anche nel tragitto che percorsi con la Scaberwilly fino a Caliginus a cavallo del mezzodì. Quel brutto sobborgo dista circa 90 chilometri da Giudatown ma la statale quel giorno era satura di vetture in transito e ci volle molto più della solita oretta di viaggio; parecchi automobilisti avevano avuto la mia stessa pensata ed avevano preferito evitare l’autostrada per via della pioggia battente e della nebbia che si era levata in tarda mattinata. Fui dunque costretto a procedere a passo di bradipo e quando arrivai a Caliginus erano già le due del meriggio.
     La fabbrica del Vaiolo era un grosso capannone che avrebbe avuto bisogno di una bella ristrutturazione. Tuttavia al suo interno l’abilità del vecchio Ugo bastava per fare di quell’officina la migliore armeria di tutta la regione. Il Vaiolo ormai sovrintendeva al lavoro dei suoi dipendenti ma, da vero artigiano qual era, non riusciva a starsene dietro ad una scrivania. Quando entrai nell’ala della fabbrica aperta al pubblico, lo notai subito dietro un grosso banco da lavoro, intento ad armeggiare (mi sembra un termine appropriato) col mirino di una carabina Alphonsine. Il buon Ugo mi conosceva giusto di vista, mi sapeva cliente piuttosto affezionato, ma con tutta la gente che bazzicava lì da mane a sera non poteva ricordarsi le mie generalità. Pertanto quando gli fui vicino mi presentai: “Salve, Vaiolo. Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato… Si ricorda di me?”.
     Il Vaiolo alzò lo sguardo, strizzò gli occhi, tolse infine gli occhiali lasciandoli penzolare dalla tracolla e poi sorridendo fece: “Sì, ora la raffiguro… Sì… Lei è di Giudatown, vero?”.
     “Già”.
     “Sì, sì, mi ricordo benissimo… Lei ha una Poseidon 48, se non sbaglio…”.
     “Esatto, signor Ugo”.
     “Le ha dato qualche noia, forse?”.
     “Assolutamente no. La mia pistola non perde colpi. Sono qui per un motivo diverso, Vaiolo. Ho bisogno del suo aiuto e della sua memoria che vedo funziona ancora meravigliosamente bene nonostante… insomma, nonostante tutto, ecco”. Voleva essere un complimento ma avevo finito con l’incartarmi e nel momento in cui la fronte del Vaiolo si aggrottò, passai oltre: “Ehm, sì, dunque: sto svolgendo un’indagine piuttosto delicata. Lo vede questo bossolo?” ed estrassi dalla tasca il cilindretto d’ottone che avevo recuperato tra le pozzanghere di Via Spruce.
     “Certo. E’ uno dei miei”.
     “Bene. Sappia, signor Ugo, che questo proiettile mi è stato sparato contro ieri sera da un fucile ad alta precisione. L’ho schivato per miracolo”.
     “Mm… mi faccia vedere”. Glielo porsi e lui, dopo aver rinfilato gli occhiali lo esaminò: “E’ uno zigrinato per fucili a ricarica Navinger… Ho già capito: la ganga di Vanv”. Lentamente il Vaiolo tolse nuovamente gli occhiali e mi fissò sospirando: “Dia retta a me, sor Zingo: lasci perdere. Quelli non sono ladri di albicocche! Quelli non si fanno scrupoli a togliere di mezzo chi li ostacola nei loro affaracci illeciti. Non ci mettono niente a sciogliere nell’acido chiunque intralci i loro piani. Quelli sono peggio della peste bubbonica. Parola di Vaiolo”.
     “Sì, ne so qualcosa. Erano due killer spietati. Mi occorre sapere i loro nomi. E’ senz’altro gente che si serve qui da Lei”.
     “La ganga viene qui un giorno sì e uno no, ha tanti scagnozzi…”, disse il vecchio Ugo scuotendo la chiorba.
     “Questi due sono piuttosto alti; uno robusto, l’altro più magro. Borsalino in testa, completi scuri. Viaggiano su una Pirrowet color canna di fucile”.
     Quell’ultimo dettaglio sembrò smuoverlo un po’: “Sì, forse ho capito. Le Pirrowet le usano in parecchi della ganga, ma codesta coppia mi è familiare, ahimé. Non ne conosco i nomi completi ma quello più grosso è Otto ‘il Picciotto’ e l’altro è ‘il Piccione’”.
     “’Piccione’ in senso dispregiativo? Magari è un po’ ingenuotto o tardo di comprendonio?”, chiesi nella speranza di trovare un punto debole in quella coppia così ben assortita.
     “No. Sta per ‘piccione viaggiatore’, nel senso che gli danno da recapitare diversi… messaggi”. Pausa carica di suspense e poi: “Messaggi di morte”.
     Un brivido mi corse lungo la schiena ma non battei ciglio.
     Lasciai a quel punto che Ugo Vaiolo paternalmente mi sconsigliasse ancora di dare la caccia a gente di quella risma, dopodiché lo salutai ringraziandolo di cuore.
     Tornai a Giudatown con la bufera che infuriava; la città era paralizzata per via di numerosi allagamenti, la circolazione delle auto bloccata in molti sensi e purtroppo sulle prime non mi fu possibile rincasare, sebbene avessi bisogno di un po’ di riposo. Tuttavia, siccome per quella sera avevo comunque ancora una cosa da sbrigare (una capatina al Bar Abba dove Tegolo mi aveva detto che era solito esibirsi il fu Pegus Baita), decisi di tornare nel quartiere dell’Old Begallus e mangiare un boccone al Fox Trot Pub, in Mambo Square. Mi sedetti ad un tavolo vicino alla vetrata; osservavo sconsolato quel turbinare d’acqua e foglie secche chiedendomi perché mai mi ero voluto infilare in quel pasticcio. No, non mi riferisco all’indagine quanto semmai al pasticcio di carne che avevo ordinato e che adesso mi stava lì davanti: non sarebbe stato meglio, mi dicevo, scegliere una pizza? Poi invece dovetti riconoscere che il cuoco del Fox Trot sapeva il fatto suo e cenai di gusto. Poscia, a corpo pieno, davanti ad una bella tazza di caffè bollente mi dissi che forse il viaggio a Caliginus era stato un po’ infruttuoso; sapere o meno il nome dei miei assalitori in quel di Via Spruce non mi metteva al riparo da altre loro iniziative similari. Perlomeno ero sicuro che i due killer appartenevano per davvero alla ganga di Vanv. Ma che cosa c’entravano loro con Baita?
     Ora era tempo di rimettersi in cammino. Lasciai la Scaberwilly parcheggiata in Mambo Square dal momento che Farf Road non era poi così lontana e due passi a piedi, nonostante la pioggia torrenziale, mi avrebbero aiutato a digerire. Mi strinsi nello spolverino e mi avviai di pedina tenendomi sotto i prospicienti cornicioni dei palazzi. Giunsi presto a destinazione.
     Il Bar Abba era un locale ‘tristemente fumoso’ per via delle ciminiere accese al suo interno: vi veniva fatto un largo uso di cicche, sigari, canne e kalumet di provenienza varia; un tizio seduto presso l’entrata, senz’altro un esibizionista, si era acceso in bocca addirittura uno zampirone e ora inspirava con inspiegabile godimento. Entrare lì dentro, se da un lato servì a proteggermi da quell’acquazzone senza sosta, dall’altro fu come perdersi nei cunicoli dell’inferno. Non feci in tempo a strusciare i piedi sullo zerbino all’entrata che il gradasso con lo zampirone mi apostrofò: “Chiudi la porta, imbecille!”. Dopodiché ricacciò in bocca il suo insetticida.
     Avanzai nella nebbia artificiale del bar e guadagnai subito un sedile vicino al bancone. Potevo intravedere dalla parte opposta del locale un piccolo palco leggermente soprelevato e bordato di lampadine; una locandina piuttosto volgarotta stava appesa su un cavalletto: era il disegno di una biondissima signorina dal sorriso ammiccante e dalle curve invadenti, in posa davvero poco ortodossa, annunciata come “Eva Margutte, la più troia di tutte”; e più in basso: “Stasera ore 23,00. Feci due calcoli e sperai davvero di potermi essere liberato per quell’ora dai fastidi di quella fosca indagine; difficile però che il caso-Baita potesse risolversi entro la mezzanotte. Comunque era una ragione in più per darmi subito da fare. Chiamai il barista, un omone che sembrava appena uscito di cella e gli dissi: “Ciao, barman. Che si dice nel locale?”.
     “Nel locale si sta zitti, se non si vuole che qualcuno ci chiuda la bocca con uno sganassone”.
     “Hai capito! Vigono regole molto ferree, vedo”.
     “Certo. Soprattutto per gli scocciatori come te”. Bene. Non era a lui che potevo rivolgere domande sul Baita.
     “E a che cosa devo tanta ostilità?”.
     “Si vede lontano un miglio che sei un piedipiatti e qui da noi i piedipiatti si ricevono così”.
     “Hai fatto cilecca, barman”. E qui provai ad azzardare un grosso bluff: “Io sono il fidanzato di Eva Margutte”.
     “Ma non dire scemenze, pidocchio. Eva è la donna di Fred Santapace da più di cinque anni”.
     Non mi scomposi affatto: “Quel tordo di Fred Santapace l’ha persa ad una mano di poker e adesso gli tocca rosicare!”. Dovevo pur adattarmi a quel clima di spacconate, insomma. “Ora dimmi, amico: Eva è già arrivata?”.
     “Mm… sì, è di là in camerino… Eppure, non ti ci vedo proprio come fidanzato della Margutte. Sarà meglio che me ne accerti personalmente. Vado da lei. Tu aspetta qui”. E si avviò verso una delle porte laterali sparendo presto alla vista.
     Dannazione! Non ci voleva un barman così scrupoloso! Forse avevo osato troppo ed ora dovevo prepararmi una scusa appropriata per quando quell’energumeno sarebbe tornato. Febbrilmente sondavo tutte le possibilità senza che niente di conveniente mi venisse alla mente; intanto le facce astiose degli astanti mi (a)stavano davanti. Tutte poco raccomandabili, tutte poco amichevoli.
     “Allora va bene”, mi sentii fare alle spalle poco dopo. Era il barman di ritorno: “Non so capacitarmene, ma Eva ha confermato quello che mi hai raccontato. Rideva così di gusto che non so se credere neppure a lei; però a ‘sto punto ve la vedrete tra di voi. Puoi andare in camerino: Eva ti aspetta”.
     Santa Madonna! La Margutte era stata al gioco! Che dritta! Avevo fatto centro: la fortuna aiuta gli audaci, è proprio vero. Presi la via del camerino: la porta in cui si era infilato il barista, un corridoio piuttosto buio, una piccola anticamera e infine un’ultima porticina con un foglio appiccicato su cui era scritto: “Eva Margutte – privato”. Bussai con gentilezza. Una vocetta squillante (da ragazza-squillo, per capirci) rispose: “Avanti, tesoro”.

(...continua...)



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