lunedì 16 gennaio 2012

ZINGO n° 2 "Il grizzly d'alta montagna" (4a parte)

(...segue...)

     Al risveglio era già tardo meriggio; riuscii abbastanza facilmente a sortire dai rottami della macchina. Che peccato! Quella magnifica Black Custom del '70 tutta cromata era senza dubbio da buttar via... Va be', tanto non era mia, eh, eh... Anche se l'ora cominciava a farsi un po' tarda e non c'era tanto da scherzare a trattenersi in quel luogo isolato, preferii valutare ogni possibilità con la massima attenzione. Meditai infatti per quarantacinque minuti; peraltro senza che il mio capace cervello trovasse stavolta una buona soluzione. A dirla tutta, con il poco tempo che mancava al tramonto e l'eventualità di passare la notte nella terra del grande grizzly, non sapevo che pesci pigliare. Finché all'acume della mia vista non capitò di notare una flebile scia di fumo provenire da dietro le colline a nord-ovest. Bene, bene. Con tutta probabilità l'allampanato aveva raggiunto la sua magione ed ora si riscaldava al fuoco del proprio caminetto. Che babbeo! Quella voglia di tepore lo aveva smascherato. Ed ora era là che mi sarei diretto; presso il suo nascondiglio avremmo scambiato due parole circa le sparizioni degli animali e, con le buone o con le cattive, avrei trovato anche il modo di passarci la notte. E comunque ci avrei pensato lungo il tragitto. Per adesso: gambe in spalla e via.
     Confesso che mentre percorrevo quei colli innevati (ovviamente con un paio di racchette ai piedi poiché ero su sentieri non battuti) mi capitò più volte di guatarmi attorno con massima circospezione e grande panico, come se da un momento all’altro dovesse spuntarmi dinanzi quel bestione del grizzly digrignante le sue zanne. Così pedalai di buona lena e riuscii ad arrivare a destinazione giusto al tramonto. Salii in vetta ad un’altura e quando guardai giù dall’altra parte del costone vidi, pochi metri più a valle in una radura isolata, una gran bella baita in legno con il comignolo che mandava fumo. Pensavo di vedervici lì parcheggiata la Lester Brubus dello spilungone manigoldo e invece nulla; v’era sì un piccolo spazio destinato alla sosta dei veicoli, e v’erano pure cinque o sei vetture ma nessuna traccia di quella nero corvina che avevo magistralmente inseguito. Poi, man mano che discesi verso la costruzione mi accorsi che non era un’abitazione privata bensì una locanda; nel fosco crepuscolo una lanterna rischiarava l’insegna (di legno pure quella): “Rifugio dello Scalatore Incompreso”. Da fuori sentii diverse voci rincorrersi in festosi chiacchericci e poi risate in libertà: benissimo! Non tardai dunque ad entrare. All’interno v’era un’ampia sala con tavoli sparsi, un bancone da bar e un caminetto con un fuoco ben avviato. Gli astanti erano per lo più uomini di una certa età avvolti in pastrani da cacciatori. Mi avvicinai al banco e l’oste mi si fece subito incontro: “Buonasera. Prende subito un bel bicchierotto di vin brulé?”.
     “E vada per il vin brulé!”.
     “Olé!”, fece in rima quel simpatico oste servendomene un boccale colmo fino all’orlo.
     Mentre tracannavo ebbi la buona educazione di presentarmi: “Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e sono sulle tracce di un tipo sospetto. Si tratta di un individuo alto circa due metri, allampanato e anche abbastanza brutto, che guida una Lester Brubus e che ha con sé un babbuino dalle chiappe infiammate. Che mi dice? E’ qui che alloggia?”.
     “Guardi nella sala. Gli ospiti del Rifugio sono tutti qui”.
     Allungai il collo e passai in rassegna i volti di tutti gli avventori ma in nessuno di quelli riconobbi le scarne fattezze del mio uomo: “Bah… Questo è un bel mistero!”. Chissà dove era andato a cacciarsi quel furfante! La probabilità più attendibile era che il “pertica” non fosse mai arrivato all’accogliente Rifugio dello Scalatore Incompreso e che invece avesse menato la sua Lester Brubus altrove, magari presso un’altra baita della zona, e che io mi fossi lasciato ingannare dal fumo di quel caminetto acceso. In ogni modo adesso era troppo tardi per proseguire le ricerche, pertanto domandai all’oste: “Affittate delle camere, buon uomo?”.
     “Certamente. Ma Lei deve aver camminato per molte miglia: vuole un altro calice di vin brulé per riscaldarsi?”.
     “Senz’altro. Dia qua”.
     “Voilà”, fece l’oste porgendomi un secondo caraffino fumante.
     Bevvi d’un sol fiato e poi dissi: “Intenderei pernottare qui da voi. Avete una camera libera, calda e confortevole?”.
     “Ecco pronte per Lei le chiavi della stanza n°7: un bijou. Piuttosto, che dice? Andiamo con la terza chicchera di vin brulé?”.
     “Grazie, sì, sì”.
     “Olà-là-hì-hì!”, rimò di nuovo l’oste gridando tipicamente alla montanara e rifilandomi un altro panciuto boccale. Finii di bere, presi le chiavi della stanza e mi avviai per sistemarvi le mie cose. Aveva ragione l’oste, la camera n°7 del Rifugio dello Scalatore Incompreso era una vera chicca: tutta in larghe doghe di legno, pulita, con tappeti in pelliccia d’orso, un lettone con sopra un plaid scozzese e un piumino irlandese, monili e quadri inerenti alla caccia del grande grizzly e alle imprese dei più grandi scalatori della storia (quelli incompresi, probabilmente).
     Ebbi appena il tempo di togliere gli scarponcelli bigi, sgranchire i piedi con movimenti ratti delle dita e infine mettere a posto la roba dello zaino; poi, esausto, con la testa che mi girava e il vin brulé che mi mussava dentro lo stomaco, caddi riverso su quel morbido lettone e vi schiacciai una dormita d’un paio d’ore. Penso anche di aver ronfato rumorosamente come un ghiro in letargo.
     Quando mi risvegliai era già ora di cena. Niente di meglio che ridiscendere giù in sala e lì soddisfare le richieste del mio stomaco vuoto.
     Adesso i tavoli dello stanzone erano tutti apparecchiati con rosse tovaglie a quadri e i clienti sedevano a piccoli gruppi. Presi posto proprio di fianco a un paio di vecchi cacciatori che, appese le loro cartucciere alla parete, si preparavano smaniosi a degustare le prime portate. La cena fu un vero portento: zuppa di cipolle, pollo in fricassea, polenta e strudel. Il tutto condito dal consueto vin brulé che l’oste non lesinava di versarmi in continuazione nel bicchiere. Poi, siccome durante quella sgrifata ero entrato in confidenza con i cacciatori del tavolo, chiesi loro informazioni sul grande grizzly.
     “Eeehh, il grande grizzly…”, sghignazzò l’esperto Stamp, “Abbiamo speso una vita a dargli la caccia ma ancora la sua pellaccia non siamo riusciti a conquistarla. E’ un animale raro, assai difficile da scovare anche su queste montagne che sono proprio il suo regno. Io stesso l’ho visto una volta sola: era così grosso che non ho avuto il coraggio di premere il grilletto; anzi, me la sono data a gambe levate”.
     “A dire il vero pensavo che ‘sta bestia fosse vegetariana”, dissi timidamente.
     “Vegetariana un cazzo!”, rise sguaiatamente l’anziano Terzilli. Poi l’esperto Stamp mi dette una nuova dritta: “Ad ogni modo, guardi, se intende sapere qualcosa di scientificamente più preciso al riguardo chieda pure a quel signore seduto là in fondo. Mi sfugge il suo nome adesso ma è comunque il più grande studioso di grizzly di tutta Bubba Mountain e dintorni”. Presso un tavolo appartato v’era infatti un uomo sui trentasei anni con capigliatura nera e pizzo fluente. Incuriosito, andai subito a sedermi difronte a lui e mi presentai: “Salve. Il mio nome è Zingo, Dino Zingo. Sono un investigatore privato e sto indagando su un caso davvero spinoso che sta monopolizzando l’attenzione di tutta Bubba Mountain”.
     “Buonasera. Io mi chiamo Bruger. In che cosa posso esserle utile?”.
     “Ah, Lei è il Bruger! Il famoso grizzlologo! Sul suo conto mi ha parlato benissimo il sindaco Dende”.
     “L’amico Piotre è sempre generoso nel reclamizzare i miei studi”.
     “Ecco, appunto. Il caso che mi sto accingendo a risolvere (questione di ore, ormai), è proprio legato in parte alla figura del grande grizzly. Saprà senz’altro di cosa sto parlando: si tratta delle celeberrime sparizioni di animali che si sono verificate giù in paese e che questi montanari, abilmente messi su da quell’idiota di John Necchi, insistono a voler identificare come opera dell’infame bestione. Eppure, sia io sia il Dende siamo certi che il tutto sia un’oscura macchinazione di qualche mascalzone pieno di cattive intenzioni”.
     “Sì, conosco bene la faccenda; ne abbiamo parlato spesso con Piotre. Sono stato proprio io a convincerlo che il grizzly non può entrarci nulla con i furti degli animali. Sono anni che quell’orso gigante si è spostato ormai più a nord verso le Montagne Rafelson. Qui i cacciatori non gli hanno mai dato pace e così ha dovuto cercarsi un rifugio più tranquillo: non è da biasimare. Comunque, anche quando qualche avvistamento ce l’ha segnalato nei paraggi di Bubba Mountain, giammai lo si è potuto scovare vicino al centro abitato. Al massimo il grizzly ha bazzicato più a monte, qui intorno. Il resto lo ha prodotto la fantasia popolare”.
     “Sinceramente, prima che il sindaco Dende mi prelevasse da Giudatown, pensavo che il grizzly non vivesse a queste quote”.
     “Qui non si parla del grizzly comune, ma del grande grizzly. E’ un esemplare (anzi, una famiglia di esemplari) che ha temprato il proprio corpo al freddo di questi monti in modo così perfetto da non aver neppure bisogno di andare in letargo; anzi più fa freddo, più v’è neve e più quell’animale pare godere. Miracoli della natura”.
     “E adesso, Bruger, cosa sta facendo da queste parti?”.
     “Ma chi, il grizzly?”.
     “No, Lei”.
     “Sto portando a compimento dei rilevamenti molto importanti per un libro di prossima pubblicazione che s’intitolerà ‘Gli acuminati artigli del grizzly fanno male’, un reportage storico-saggistico su tutte le disavventure capitate a coloro che si sono imbattuti nella belva”.
     “Interessante”.
     “Interessantissimo, sì. Domattina partirò per il nord; punterò proprio verso le Montagne Rafelson”.
     “Ecco, le chiedo un’informazione, dato che conosce così bene questi posti: sa mica dirmi se nelle vicinanze vi sono altre baite o rifugi oltre a questo?”.
     “Sì, lungo la strada che prenderò domattina v’è la Baita del Lupo Sfregiato. E’ proprietà di un dottore che, se non sbaglio, vive pure lui a Giudatown e viene quassù soltanto durante il periodo della settimana bianca. E’ il Dottor Cispus”.
     “Mmm… Mi dica: è per caso un tipo allampanato con una Lester Brubus e con una grossa passione per gatti persiani e babbuini?”.
     “No; per quanto l’abbia visto solo poche volte, non è questa la descrizione che darei di lui. Come mai mi chiede certe informazioni?”.
     “Si dà il caso che al Rifugio dello Scalatore Incompreso ci sia arrivato proprio dopo essere stato depistato da un tizio tale e quale a come gliel’ho caratterizzato poc’anzi”.
     “Se è scappato da queste parti, francamente non saprei davvero dove possa nascondersi adesso”.
     “Un dubbio mi assale: vuoi vedere che quel loschissimo individuo – senza dubbio coinvolto nel caso – ha sfruttato l’assenza del Dottor Cispus per rimpiattarsi nel di lui comodo chalet e lì condurre le proprie malavitose operazioni? Sì, è senz’altro così”.
     Il Bruger mi guardava affascinato dalla facilità con cui snocciolavo le mie deduzioni: “Interessante”.
     “Interessantissimo, sì”. Tiè: 1 a 1. Poi seguitai: “Sa cosa le dico, caro Bruger? Domattina verrò con Lei. Non certo fin sulle Montagne Rafelson; no, mi fermerò molto prima, vale a dire non appena arriveremo alla Baita del Lupo Sfregiato. Ho un conticino da saldare”.
     Poi arrivò l’oste con una brocca in mano: “Tutto bene, signori?”.
     “Benissimo”, gli feci, “Domani vado a nord con Bruger e poi si vedrà se questo benedetto cerchio non lo stringo!”.
     “E allora vin brulé per l’amico Zingo!”, rispose quello naturalmente in rima versandomene un bicchiere intero.
     Dopo che l’ebbi scolato senza interruzioni e mi apprestavo a continuare la chiaccherata con il Bruger, riecco di nuovo l’oste: “L’ha già finito?”.
     “Certo. Non ne ho lasciato neppure un gocciolino!”.
     “Altro vin brulé per l’amico Zingo Dino!”. E giù un nuovo boccale. La testa cominciava a pesarmi sul serio…
     Frattanto in mezzo alla sala i cacciatori avevano creato uno spazio circolare spostando qualche tavolo; il Terzilli aveva tirato fuori dal suo borsone un organetto e si era messo a strimpellare antichi motivi montanari; l’esperto Stamp aveva agguantato un paio di cucchiai e ritmava la musica picchiandoli su una scodella; tutti gli altri cantavano jodel gustosissimi e danzavano con brio. Io stesso, euforico oltre la misura date le insistite libagioni, mi avanzai nel mezzo del gruppo e improvvisai un ballo scatenato sulla falsariga di quello degli altri; risero tutti smodatamente giacché ballare non è proprio il mio forte, ma chi se ne importa? Quella era una serata meravigliosa e bisognava divertirsi a più non posso. Proprio questo pensavo, mentre muovevo i miei passi da elefante e battevo le mani fuori tempo: “Ma che bello quassù in montagna! Ma che paradiso questo Rifugio dello Scalatore Incompreso! Ma che allegria nei volti di questi anzianotti del posto! Evviva, son proprio felice!”.
     A quel punto mi si accostò per l’ennesimo tentativo l’oste con il suo fiasco: “Arsura in gola, Zingo?”.
     Stavolta volli metterlo in difficoltà e gli proposi una rima molto ostica: “No. Ho solo voglia di cantare questo jodel”.
     Ma quello: “Bene. S’accompagni con vin brulé e strudel!”. E mi servì entrambe le cose in abbondanza. Cominciavo a vedere doppio; l’organetto del Terzilli e le cucchiaiate dello Stamp erano ora per la mia testa delle mazzate tremende. Stavo lentamente perdendo i sensi… Per non cadere giù in terra mi sorressi al bancone da bar; capitando però, una volta di più, tra le grinfie di quel dannato oste. Questi mi fece: “Zingo! Beva l’ultimo sorso della serata!”.
     Nonostante la mia mente si stesse ormai perdendo nelle nebbie più avvolgenti, mi sforzai ancora di metterlo alle strette con un’altra rima impossibile: “No, grazie. Mi sento pesante come un grizzly”.
     Stavolta il simpatico oste accusò il colpo e rimase impallato, come se non riuscisse a risolvere il gioco di parole. Poi, pur di versarmi quel maledetto ultimo calice, barattò la sua indubbia abilità con un insulso: “E allora… ehm… diciamo… Trallalléro trallallà!”. Non c’entrava nulla ma mi riempì ugualmente il bicchiere obbligandomi a tracannarlo. Fu la classica goccia (di vin brulé) che fece traboccare il vaso. Svenni all’istante cadendo rumorosamente sul pavimento di parquet del rifugio. Poi, a quanto mi è stato riferito in seguito, fui trasportato a braccia privo di sensi nella mia cameretta n°7 e lì adagiato sul mio lettone dove tornai a fare il ringhiante verso del ghiro in letargo.
     L’indomani mi svegliai che il sole era già alto e si andava verso il mezzodì. La ciucca rimediata la sera prima aveva fatto sì che il sonno mi soverchiasse alla grande. Fortuna che pure il Bruger non versava in migliori condizioni. Così ci trovammo entrambi a fare colazione – pane, marmellata di ciliege e caffellattone gigante – mentre tutti gli altri (Stamp, il Terzilli e i loro compari) si apprestavano a pranzare; dopodiché, con un velo di malinconia, lasciammo il grazioso e festante Rifugio dello Scalatore Incompreso.
     Il Bruger era un buon camminatore e per tenergli dietro dovetti sudare non poco. Tuttavia il nostro viaggio, accompagnato da un tiepido solicino, pareva iniziato sotto buoni auspici. Presto lasciammo il sentiero battuto per inoltrarci nella rada boscaglia in mezzo alla neve fresca: questo ci obbligò a calzare le consuete racchette sotto gli scarponi. Il Bruger durante il tragitto ebbe modo di illustrarmi in tutti i particolari la figura del grizzly, descrivendolo feroce, cinico e spietato; inoltre mi fornì anticipazioni molto interessanti sul suo libro in preparazione, quel “Gli acuminati artigli del grizzly fanno male” di cui già mi aveva parlato; confessò poi di non essersi mai imbattuto nel terribile bestione e di sperare vivamente di incontrarlo in questo viaggio verso le Montagne Rafelson. Dal canto mio cercai di coinvolgere Bruger negli aspetti più oscuri dell’indagine che stavo conducendo, in particolare di come ritenessi lo sceriffo John Necchi uno dei possibili responsabili. “Anzi”, gli feci, “chissà che non me lo trovi davanti proprio presso la Baita del Lupo Sfregiato mentre con quell’altro spilungone – all’insaputa del legittimo proprietario di casa – si spartisce selvaggina di frodo oppure degusta le prelibate carni di un tapiro o di un babbuino”. Più che altro si discuteva per farsi compagnia. Intanto il cielo si era coperto e sembrava che presto o tardi si sarebbe addirittura messo a nevicare.
     Poi, dopo circa due ore di faticoso cammino e proprio appena dopo che erano cominciati a cadere i primi grossi fiocchi di neve, ecco che udimmo uno strano tramestio tra gli abeti. Ci bloccammo impietriti aguzzando la vista. Sancta Mater Dei! Non ci crederete, ma a non più di trenta metri da noi v’era il grande grizzly!
     Ero paralizzato dalla fifa, non mi vergogno ad ammetterlo. Bruger si tolse lo zaino dalle spalle e cominciò a frugarci dentro con impazienza. Mentre quel famelico quadrupedone dondolava la sua stazza enorme tra gli alberi, io dissi: “Filiamocela, Bruger!”. Ma quello, con mia grande sorpresa, era già partito per la tangente: lo vidi infatti togliersi i guanti da sci, infilare un paio di nacchere e avanzare concentratissimo verso quel gigante di pelo scuro. Cercai dunque di richiamarlo a me vociandogli: “Ma che fa, Bruger? E’ impazzito? Torni subito qui!”. Ma il grizzlologo, continuando ad avanzare e senza voltarsi, mi gridò in risposta: “Sono anni che mi preparo per questo incontro! Vuole che non abbia scoperto il modo per ipnotizzare e catturare questa bestia infame? Guardi piuttosto come si fa”.
     Non che volessi sfiduciare il mio amico però preferii assistere alla scena da una postazione un po’ più sicura e infatti mi inerpicai fin sui primi rami di uno degli abeti più grossi. Da lì osservai il Bruger arrivare ad un palmo di naso dal grizzly, sbatacchiare le sue nacchere e, pur con le racchette ai piedi, pesticciare fitti passi di flamenco: “Olééé!!!”, berciava in castigliano. Il grande grizzly non si lasciò impressionare, emise un ruggito roboante e tramortì il povero Bruger con una feroce zampata. Le nacchere volarono via lontano e per fortuna il bestione sembrò sulle prime accanirsi solo contro quelle; ma il noto grizzlologo giaceva ormai riverso e immobile sulla neve. Scesi rapido dall’abete e corsi verso il mio compagno con il grizzly che già non vedevo più ma che sentivo grufolarsi felice nella boscaglia. Il Bruger era ancora vivo ma solo per dire le sue ultime parole, proprio come si vede in tutti i film alla televisione: “E’ stata un’esperienza bruttissima”, sussurrò con un filo di voce.
     Mi sentii in dovere di dire qualcosa: “Eeehh, lo immagino. Purtroppo a questo grizzly non la si fa neppure col flamenco, dannazione!”.
     “Avevo ragione, sa, Zingo… Il titolo del mio libro… Che capolavoro… L’ho azzeccato in pieno… ‘Gli acuminati artigli del grizzly fanno male’!”, e mi perì tra le braccia un istante dopo.
     E’ una scena che non potrò dimenticare mai. Purtroppo però un investigatore privato è un professionista e un professionista non può cedere al morso della commozione. Ma soprattutto un professionista non può cedere al morso del grande grizzly. Già, perché di questo adesso si trattava: il bestione si era probabilmente ingozzato le nacchere e stava tornando alla carica con le zanne in bella mostra. Me lo vidi di nuovo arrivare dal bosco a grande velocità; mollai subito il cadavere del Bruger e scappai correndo a tutta forza. Per fortuna il grizzly voleva solo spaventarmi e tenermi lontano dalla preda che aveva conquistato. Bene, ci riuscì perfettamente.

(...continua...)

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